Anoressia e bulimia nei bambini, i segnali da non sottovalutare: quando (e come) intervenire
La psicoterapeuta Baldissera: «A questi bambini viene chiesto troppo, devono fare tutto e alla fine l’unica cosa che non hanno il tempo di fare è giocare in giardino». C’è un insieme di fattori che può portare a sviluppare disturbi alimentari in età pediatrica: scopriamo quali sono

Un disturbo alimentare non nasce da un commento o dall’uso di un linguaggio sbagliato ma, e questo è certo, un commento o un linguaggio sbagliato possono contribuire all’insorgenza di un disturbo alimentare, se ci sono altri fattori scatenanti.
A confermarlo, la dottoressa Erika Baldissera, psicoterapeuta e coordinatrice della Casa delle Farfalle di Portogruaro, centro di riferimento della Regione Veneto per la cura dei disturbi dell’alimentazione, spesso appoggio anche per il Friuli.
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Dottoressa, l’età di esordio dei disturbi alimentari è diminuita, lo riscontrate anche nella vostra struttura?
«Si, se fino a tempo fa i disturbi si manifestavano tra i 15 e i 23 anni, entrambi momenti importanti perché da una parte abbiamo l’ingresso nell’adolescenza e dall’altra nell’età adulta, oggi il 20% di chi si ammala è al di sotto dei 14 anni. Lo scorso anno abbiamo fatto cinque esami di terza media qui dentro, e abbiamo avuto anche delle bambine delle elementari».
Come mai questa insorgenza sempre più bassa?
«Oggi è tutto un po’ anticipato, anche i bambini sono esposti a tante esperienze in maniera precoce, se pensiamo che a volte alle elementari hanno già il cellulare e usano i social. Il problema è che non hanno una maturazione tale da saper usare questi strumenti e per tutelarsi».
Spesso si sentono genitori o nonni fare commenti sull’aspetto fisico dei bambini o sulle abitudini alimentari, sono da evitare? Potrebbero scatenare problematiche?
«Sicuramente focalizzare l’attenzione su questi aspetti può essere un fattore di rischio che, però, si deve collimare con altri fattori, come le diete, per dirne uno. Non puntiamo il dito contro le famiglie, anche perché spesso i bambini a casa ci stanno poco, pensiamo anche alla scuola, ci sono insegnanti che come compito di scienze insegnano a calcolare l’indice di massa corporea, atteggiamenti sbagliatissimi nel mondo dello sport. Tutto ciò incide».
Oggi la società, e i bambini non sono da meno, sono stretti tra due poli: cultura della dieta e cultura della performance. Quanto questo incide nella comparsa di un disturbo alimentare?
«Tantissimo. A questi bambini viene chiesto troppo, devono fare tutto e alla fine l’unica cosa che non hanno il tempo di fare è giocare in giardino».
Poi ci sono i social.
«Sì, con i modelli tossici trasmessi dagli influencer, tra perfezionismo e prestazioni. Una volta c'erano i siti pro ana, con i dieci comandamenti per perdere peso in tempi record e altri comportamenti scorretti, oggi con i social diventa importante la quantità di tempo di esposizione a questi modelli e a queste immagini. Ricordiamoci che, con l’algoritmo, è praticamente continua».
Incide solo questo o anche il fatto che le relazioni sembrano essere sempre più virtuali e il tempo a disposizione sempre troppo poco, e quindi viene meno quel contatto umano necessario per accorgersi di eventuali problematiche?
«Vedo una gran fatica a verbalizzare le proprie emozioni, da parte di tutti, così come nel gestirle. Probabilmente perché ai bambini non viene più dato il tempo per poterlo fare, impegnatissimi come sono e con le aspettative troppo elevate degli adulti».
Qual è il disturbo dell’alimentazione più frequente nei bambini?
«Anoressia e Arfid, il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo. Quest’ultimo in particolare è ancora troppo sottovalutato. Spesso i bambini che ne sono affetti vengono considerati semplicemente come selettivi o schizzinosi, mentre la questione è più complessa e c’è un vero e proprio disinteressamento al cibo, che a volte può nascere da un trauma legato alla deglutizione».
Quindi vuol dire che i pediatri hanno una scarsa formazione in materia?
«Sicuramente si potrebbe fare di più e servirebbe aprire un dialogo con questi professionisti. Poi, ovviamente, non bisogna fare generalizzazioni e creare allarmismi: ci sono bambini veramente selettivi che non hanno l’Arfid».
Rispetto all’anoressia, invece, come avviene l’esordio in età pediatrica?
«Ha più o meno lo stesso esordio delle adolescenti, anzi, è ancora più tumultuoso perché la perdita di peso è spesso molto più drastica e, quindi, il quadro clinico diventa grave fin da subito. La differenza è che, se nelle adolescenti è legato anche allo sviluppo e al cambiamento delle forme corporee, le bambine non hanno assolutamente in testa questo discorso, spesso non sanno nemmeno cosa succederà al loro corpo quando entreranno nell’adolescenza».
Una situazione e un’età diversa, anche il trattamento terapeutico non sarà lo stesso, giusto?
«Innanzitutto si usa un altro linguaggio, più leggero, perché di certo le bambine non sanno ciò che stanno facendo, quindi non saremo noi a dire loro che stanno mettendo in atto delle restrizioni alimentari, per fare un esempio. La terapia, anche in questo caso, si costruisce: di solito nelle prime due settimane osserviamo la situazione e poi tariamo il livello di cura. In questi casi è fondamentale avere la flessibilità per creare dei sottogruppi per tutelare l’età infantile».
Questo perché c’è il rischio di emulazione, stando a contatto con le ragazze più grandi?
«Non è solo quello, è un’età diversa e di conseguenza anche le esigenze sono diverse. Sono bambine e come tali hanno bisogno di giocare e di un altro tipo di attenzioni, stare lontane da casa è più difficile, spesso arrivano dopo settimane o mesi di ricovero in ospedale. Fondamentale è anche coinvolgere le ragazze più grandi, spiegare loro che con le bambine è necessario avere un certo comportamento, così allora funziona».
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