Salute e innovazione: «Serve un codice etico per difendere la sanità dalla Ai»
Gianfelice Rocca, presidente della Fondazione Cini, esplora l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla sanità, mettendo in evidenza i rischi legati alla privacy e la necessità di un’etica adeguata per affrontare le sfide future
«Siamo di fonte a una rivoluzione, paragonabile a quella dell’elettricità». Gianfelice Rocca è stato nominato presidente della Fondazione Giorgio Cini di Venezia l’estate scorsa.
Alla guida del gruppo Techint che spazia dall’acciaio agli ospedali, l’imprenditore è tornato in questi giorni sull’isola di San Giorgio per aprire il simposio “Global health in the age of Artificial Intelligence”, per il quale la Fondazione ha riunito attorno al tavolo quaranta esperti di etica e sanità provenienti da tutto il mondo, con l’obbiettivo di confrontarsi su una serie di raccomandazioni sull’uso dell’intelligenza artificiale nella cura delle malattie e nei sistemi sanitari, che saranno messe a disposizione del dibattito istituzionale.
L’introduzione delle nuove tecnologie rappresenta una grande sfida, capace di inaugurare una nuova era ma, allo stesso tempo, fa nascere molte preoccupazioni.
Presidente, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in ambito medico suscita grandi aspettative ma anche grandi timori. Perché la Fondazione ha scelto di concentrare la sua attenzione su questo argomento?
«Si tratta di un tema cruciale, che attraversa diversi ambiti dell’attività umana e che pone questioni enormi. La sanità e l’istruzione fanno la storia dei Paesi e dei continenti, sono campi sui quali si giocano i risultati delle elezioni. Di recente il patriarca di Venezia ha invitato a cercare di comprendere le conseguenze che l’evoluzione tecnologia e scientifica ha in questo periodo sull’umanità. Per questo parlarne in un contesto pluriculturale e con una profonda tradizione umanistica come la Fondazione Cini ci è sembrato interessante».
Il patriarca Francesco Moraglia ha detto di credere nelle opportunità che l’AI può aprire ma ne ha sottolineato i pericoli, la paura della disumanizzazione della persona. Sono pericoli reali?
«Penso che l’intelligenza artificiale abbia un enorme impatto nell’aiutarci a sviluppare l’intelligenza naturale. Non si può immaginare di fermare lo sviluppo di nuove tecnologie che aiutano a liberarci delle attività più semplici e ripetitive, aprendoci l’opportunità di dedicarci a quelle più complesse. Capita in vari ambiti che si abbia la tentazione di difendersi tornando indietro, ma dovremmo essere contenti che certe attività possano essere affidate all’AI. Dobbiamo però essere attenti ai possibili rischi».
Ad esempio?
«La diagnostica sta ottenendo risultati che in precedenza erano inimmaginabili, sia nello screening delle malattie sull’intera popolazione, sia nella diagnosi del singolo pazienze. Tuttavia i dati vengono inviati al di fuori del nostro Paese e così finiscono per supportare altrove lo sviluppo di algoritmi e sistemi di AI, creando ulteriori asimmetrie. Il tema della localizzazione dei server dove i dati vengono conservati è importantissimo: si trovano in altri Paesi, in qualche altra parte del mondo oppure appartengono a un sistema sanitario europeo?».
Che ruolo gioca l’Europa in questa partita?
«L’Europa rischia di muoversi con un atteggiamento troppo difensivo, e quindi di trovarsi esclusa: se non si partecipa alla costruzione del processo c’è il pericolo di mettersi nella posizione di subire l’evoluzione e poi adottarla senza aver contributo a metterla in atto con i principi etici che condividiamo».
È un rischio in prospettiva o è già così oggi?
«Non è una paura teorica. Se non si capisce in che modo si entra nel gioco, per i temi di privacy e di utilizzo dei dati si rischia moltissimo. Parlare di questo argomento è importante, il prezzo che si paga nell’avere una visione restrittiva è alto, si rischia di restare al di fuori dell’evoluzione di strumenti potentissimi».
Anche per questo l’iniziativa della Fondazione Cini?
«Sì, per capire come si può difendere a monte un’etica rispetto all’AI non rivolta al passato ma che guardi al futuro. Questo è fondamentale, altrimenti rischiamo di avere un’etica del mondo di ieri in un contesto che si è invece evoluto».
Lei ha detto che sulla sanità si giocano le elezioni. Perché le persone hanno paura di perdere l’accesso al servizio sanitario nazionale?
«Ci sono due fattori che stanno incidendo in maniera significativa sui servizi sanitari: l’invecchiamento generale e l’innovazione tecnologica, che rende possibile una medicina di precisione, trasforma molte patologie come il cancro in malattie croniche, ma con un conseguente aumento dei costi delle cure. I sistemi sanitari, non solo quello italiano, sono sotto stress dappertutto. La sanità deve porsi il problema delle risorse, che diventa quindi un tema sociale e politico».
L’altra grande emergenza è la mancanza di personale nella sanità pubblica.
«Un aspetto spesso non considerato è il cattivo utilizzo delle risorse. Il sistema non riesce ad attribuire i compiti delle diverse professionalità in modo da poter segmentare le necessità, con il risultato che c’è un divario tra formazione e riconoscimento della professione. Il problema riguarda da una parte la formazione, dall’altra l’utilizzo delle persone nelle strutture. Servirebbe una riforma di entrambi questi aspetti. Poi ci sono altri problemi. Un esempio è quello dei tecnici di laboratorio o radiologia, professioni poco ambite perché sembrano una perdita dell’anima di questo lavoro, visto che si sta lontani dal paziente. Grazie all’AI si alleggerisce la dimensione diagnostica consentendo di partecipare in modo più efficace alla definizione dei percorsi di cura, ritrovando il senso della professione».
In futuro sarà l’algoritmo a curarci?
«L’AI è già presente negli ospedali, in tutti i processi diagnostici dove permette di evitare errori e alzare il livello medio degli operatori. L’applicazione automatica nei percorsi di cura è però impossibile, perché si rischia sempre di commettere errori e nel caso della sanità li si fa sulle persone. Siamo in uno scenario in cui non si può negare l’importanza della precisione ma c’è un flusso di responsabilità che non può essere ignorato».
Per affrontare la carenza di personale, non basterebbe aumentare gli stipendi?
«Il problema è che tutto il sistema è in astenia di risorse e, oggi, chi lo governa cerca di evitare a tutti i livelli la spesa e quindi lo schiaccia. Il privato accreditato non sta molto meglio del pubblico, con le tariffe ferme al 2011 mentre l’inflazione ha comportato un aumento dei costi del 30 per cento».
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