Medicina, sostantivo femminile: il punto sulle cure di genere

La più grande paura di una donna è il tumore al seno, ma la prima causa di morte per il genere femminile è l’infarto. E l’osteoporosi colpisce anche gli uomini, ma i farmaci sono testati solo sulle donne. Con Giovannella Baggio e Luca Fabris, docenti dell’Università di Padova, il punto sulla medicina di genere

Annalisa Girardi e Fabiana Pesci

Lo Zolpidem è un sonnifero molto diffuso, un farmaco comunissimo. Eppure una decina di anni fa è finito sulle prime pagine delle testate internazionali, facendo parlare moltissimo di sé. Perché? Perché la Food and Drug Administration americana si era resa conto che prescrivere le stesse quantità a uomini e donne fosse un errore, in quanto l’organismo femminile ci metteva molto più tempo a smaltirlo e quindi continuava a subirne gli effetti anche a diverse ore di distanza dall’assunzione.

Se di norma veniva preso la sera per dormire, il mattino seguente gli uomini che ne facevano uso si svegliavano freschi e riposati, mentre le donne erano ancora intontite. Quando si mettevano poi in macchina per andare al lavoro erano ancora sotto l’effetto del farmaco, ma non lo sapevano. Improvvisamente aumentarono gli incidenti stradali in cui erano coinvolte le donne e tutte raccontavano di aver avuto un colpo di sonno. La causa era lo Zolpidem. 

La Food and Drug Administration disse allora alla casa farmaceutica che lo produceva di abbassare la dose raccomandata per le donne e lanciò un appello a tutte affinché si recassero dal proprio medico per testare gli effetti del farmaco. All’indomani dell’annuncio (era il 2013) Ellis Unger, direttrice nell’ufficio valutazioni dell’FDA, spiegò ad Abc News: «Non capiamo ancora il perché, ma le donne sono più suscettibili alle alterazioni anche il mattino dopo». 

Il perché forse è sempre stato sotto gli occhi di tutti. Le donne sono diverse dagli uomini. Reagiscono ai farmaci in maniera diversa, presentano sintomi diversi, subiscono l’impatto della malattia in modo diverso. 

Un’affermazione banale. Eppure la medicina per secoli sembra aver rimosso questo concetto. La medicina di genere si propone di porre rimedio. 

Cos’è la medicina di genere

Pensiamo al tumore al seno. Forse è la malattia che alle donne fa più paura. Eppure la prima causa di morte della popolazione femminile in Italia e in Europa è la patologia cardiovascolare.

Ma l’infarto è considerato da sempre una malattia maschile, tanto che studi, farmaci e prevenzione per anni sono sempre stati rivolti per lo più agli uomini. Rovescio della medaglia: l’osteoporosi. Patologia femminile per eccellenza, si dirà. E invece no, colpisce pure i maschi, ma i farmaci sono stati testati per anni solo sulle donne.

Ecco spiegata, con un esempio, la medicina di genere, che non è la medicina delle donne, ma la medicina che tiene conto delle differenze specifiche di ognuno, che tara la ricerca e la cura giuste sul paziente che ha di fronte. Una dimensione che parte da un’affermazione ovvia, «La donna è diversa dall’uomo».

Ma questa osservazione – lapalissiana – è passata sotto silenzio per decenni nelle Università mediche, negli ospedali, finchè l’ateneo padovano, nella figura della professoressa Giovanella Baggio, ne è diventato pioniere.

Un tempo parlare di medicina di genere era come gettare un sassolino in uno stagno, decenni dopo, (nel 2018) l’Italia ha istituito un piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere. 

Infarto, Alzheimer, patologie ortopediche, psichiatriche, pediatriche, tutto rivisto alla luce delle differenze tra uomo e donna, che non viene più considerata “un maschio in piccolo”. E i risultati sono evidenti.

Giovannella Baggio, la pioniera della medicina di genere

GIOVANNELLA BAGGIO DIRETTORE DELL'UNITA' OPERATIVA COMPLESSA DI MEDICINA GENERALE DELL'AZIENDA OSPEDALIERA DI PADOVA
Giovannella Baggio, pioniere delle cure di genere in Italia

 

Come è possibile che per così tanto tempo, in cui la medicina ha compiuto progressi incredibili, non ci si sia mai resi conto del peso delle differenze di genere?

«Purtroppo è così, siamo riusciti prima ad andare sulla luna che a renderci conto delle differenze specifiche tra uomo e donna in tanti rami della medicina. Ci sono malattie che colpiscono in modo differente maschi e femmine, i farmaci con cui le curiamo hanno efficacia diversa.

L’organismo femminile, caratterizzato da una certa ciclicità, è più complesso e la ricerca costa di più. Pensate che anche gli esperimenti in laboratorio sugli animali vengono fatti quasi esclusivamente su esemplari maschi, perché appunto costano meno».

Forse se le cose stanno così è anche perché fino a pochi anni fa la maggior parte dei medici e ricercatori era di sesso maschile e ha studiato solo ciò che la riguardava?

«Forse sì. Una cardiologa, Bernardine Healy, una volta ha scritto un editoriale su un’importante rivista scientifica e ha parlato della sindrome di Yentl: si è chiesta se così come la protagonista del famoso racconto sia costretta a rasarsi la testa per sembrare un uomo in modo da poter studiare i testi sacri dell’ebraismo, anche le donne oggi debbano camuffarsi da uomini per farsi curare.

Alle conferenze di questa cardiologa gli uomini si alzavano e lasciavano la stanza. Questo avveniva nei primi anni Novanta: sono passati trent’anni e per fortuna qualche passo in avanti lo abbiamo fatto».

Bisogna lavorare di più sulla formazione dei medici? Sono tantissime le donne che hanno denunciato di essersi recate dal medico per anni con dolori e disturbi e di aver ricevuto una diagnosi solo dopo moltissimi anni…

«C’è ancora tanto lavoro da fare. Le cose stanno cambiando, ma bisogna rendersi conto che la medicina di genere – io personalmente non amo nemmeno chiamarla così, è medicina – non deve essere una disciplina a parte. Parliamo di una dimensione trasversale, che si applica a chirurgia, cardiologia, immunologia… a tutto».

Mi può fare un esempio di come la sottovalutazione delle specificità sia un problema per la salute delle donne?

«C’è una sottovalutazione, ma spesso anche un errore di valutazione. Perché non vengono riconosciuti i sintomi. Ad esempio, l’infarto nella donna si può manifestare in maniera diversa dall’uomo: spesso senza dolore al petto, ma magari nella pancia o uno stato di forte ansia.

Ma quando la donna va dal medico, questi non vengono riconosciuti come preambolo di un attacco cardiaco, e magari si arriva in pronto soccorso in codice verde».

L’Italia è pioniera?

«Sì, da questo punto di vista il nostro Paese è molto avanti. Quella della medicina di genere è una questione scientifica, medica, etica e anche legale. Perché nel nostro Paese c’è una legge, del 2018, che ha istituito un piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere».

Le criticità: l’esperienza del professor Luca Fabris

Luca Fabris, professore di Medicina di Genere

L’abbiamo detto: l’Italia è stata pioniera per quanto riguarda la medicina di genere. E l’Università di Padova può intestarsi questo primato, essendo stato il primo ateneo a istituire una cattedra specifica. Cattedra che fu proprio della dottoressa Baggio e che ora è passata al professor Luca Fabris. Ma nonostante questi passi avanti, c’è ancora molto lavoro da fare. 

«Insegno medicina di genere per gli studenti del terzo anno. Non tutti gli atenei lo fanno e questo è effettivamente un problema, perché ogni professionista e ogni branca dovrebbe applicare questo approccio trasversale», ci dice Fabris. 

Per poi insistere sull’approccio trasversale, che non riguarda solo le differenze tra uomo e donna. «Va un po’ sdoganato il fatto che sia la medicina della donna. Molto spesso ci sono degli equivoci, proprio perché non viene promossa la vera finalità che è quella di studiare le differenze, che è cruciale. Se vogliamo parlare in maniera più estesa, dovremmo parlare anche di etnie.

Perché la ricerca ha sempre privilegiato quelle caucasiche nei suoi studi, ma quelle africane sono sempre state esclude. La medicina di genere si occupa anche di queste differenze», sottolinea Fabris. 

«L’Italia è stato il primo Paese a dotarsi di una legge in questo senso, evidenziando quattro pilastri nel piano nazionale sui percorsi clinici – cioè la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione – a cui ha aggiunto anche la ricerca e l’innovazione. Tutti ambiti in cui andrebbe assicurata una prospettiva di genere, cioè delle specifiche differenze. 

Tutti i progetti a livello europeo adesso devono prevedere un equilibrio tra soggetti maschili e femminili, sia che siano pazienti, animali o cellule. Io faccio da referee per gli enti europei e questo è uno dei criteri che viene invocato proprio per garantire la qualità del progetto. Ma questo non vale sono per i progetti, a anche per i paper.

Le riviste scientifiche di maggior impatto prevedono l’analisi dei dati segregati per sesso», spiega ancora il professore. 

Se la comunità scientifica ha quindi indicato chiaramente quale sia la via da intraprendere, resta ancora molto lavoro da fare. A partire dalla formazione dei medici di domani. 

«All’università di Padova prevediamo l’insegnamento della medicina di genere, ma non tutti gli atenei lo fanno. Io ho ereditato la cattedra della dottoressa Baggio, che è stata la prima in Italia a insegnare questa materia. L’intuizione è stata la sua, insieme a Giorgio Palù, che aveva colto come la medicina di genere fosse una tematica emergente anche nel campo della medicina traslazionale e per questo aveva chiamato la dottoressa Baggio in dipartimento – di cui era direttore - ancora nel 2013».

Oggi l’università di Padova, oltre ai corsi previsti dal terzo anno, ne fa anche uno extracurricolare dedicato ai laureandi che sono alla fine del loro percorso formativo. «Ma se guardiamo a tutta l’Italia emergono certamente dei gap conoscitivi, perché non tutti gli atenei prevedono questo tipo di formazione. Questo è un po’ un cavallo di battaglia che facciamo come centro studi. La medicina di genere andrebbe studiata ovunque e applicata a ogni specialità». 

I ritardi nelle diagnosi

Ogni branca della medicina dovrebbe occuparsi delle differenze di genere, sottolinea Fabris. Riguarda tutti, dai cardiologi ai neurologi, dai gastroenterologi agli oncologi. Alcuni ambiti, però, sono stati più ricettivi di altri, perché le specificità di genere erano più evidenti: «Ad esempio, l’oncologia è sempre stata all’avanguardia, perché le differenze sono state più evidenti e di conseguenza più studiate. Ma non è sempre così. Ad esempio io mi occupo delle malattie del fegato e nell’epatologia le differenze di genere sono molto più sottili.

L’uomo ha un meccanismo di fibrosi che è superiore a quello della donna, per cui è anche più a rischio di sviluppare alcune complicanze.

Questo però è un dato molto più recente rispetto a quella differenza di fenomenologia clinica che ha ad esempio l’infarto. Lì le differenze sono risultate più palesi, facendo sì che questa branca della medicina facesse un po’ da traino per gli studi di genere». 

Dove queste differenze sono più celate, il problema principale è il ritardo nelle diagnosi. E non è un problema che riguarda solo le donne: «Pensiamo alla depressione. Ci sono sintomi che non sono compresi nel DSM V – cioè nel manuale diagnostico – che riguardano ad esempio il mutacismo, quella perdita dell’interazione verbale. Quello è un sintomo di depressione nel maschio, ma non nella femmina. Se non vengono fatte le diagnosi, la malattia progredisce. E infatti la complicanza più temuta nella depressione è il suicidio, ed è più alto nell’uomo.

Oppure l’osteoporosi, la malattia metabolica dell’osso, è il classico esempio di malattia che nell’uomo viene trascurata. Non viene eseguita la densitometria: su 100 pazienti su cui viene eseguita, 90 sono donne. Però anche l’uomo dopo i 60 anni è a rischio osteoporosi e se fa una caduta anche banale e fa una frattura di femore, la mortalità per frattura di femore è più alta nell’uomo. Questi sono esempi che dimostrano come sia proprio la medicina delle differenze».

Il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere

Veniamo quindi alla pratica. Dopo anni di studi (e di risultati) nel 2018 l’Italia ha varato il  “Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere”. 

Le donne si ammalano di più e, a fronte della stessa patologia, spesso presentano sintomi diversi rispetto agli uomini. Però hanno un sistema immunitario più reattivo e sono quindi più resistenti alle infezioni, ma sono più suscettibili alle malattie autoimmuni. Vivono più a lungo degli uomini, ma peggio. Infatti l’aspettativa di vita sana è pressoché identica. Gli anni di vantaggio sono spesso gravati da disabilità, derivante da malattie croniche, scarsa qualità della vita. 

I farmaci

Gli effetti dei farmaci sono stati studiati per lo più sui maschi e il dosaggio nella sperimentazione clinica è definito su di un uomo del peso di 70kg.

La medicina di genere ha individuato differenze importanti in farmacologia tra uomo e donna, in parte attribuibili alla loro diversa biologia. Diversi fattori che influenzano l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione dei farmaci.

Rispetto agli uomini, le donne consumano più farmaci e registrano un maggior numero di eventi avversi.

L’efficacia di alcuni farmaci è diversa nei due sessi. Perfino nella sperimentazione preclinica la maggior parte degli studi viene condotta su animali maschi. Idem per i dispositivi medici, dai cateteri alle protesi: sono state studiate sui maschi.

Patologie cardiovascolari

In Italia, la mortalità per malattie cardiovascolari (cardiache e cerebrali) è maggiore per le donne rispetto agli uomini e la prima causa di morte della donna, come in tutti i Paesi industrializzati, è l’infarto del miocardio. Tuttavia fino agli anni Novanta, l’importanza delle patologie cardiovascolari nelle donne è stata poco considerata e le donne sono state incluse poco o nulla negli studi clinici relativi alle patologie cardiache. 

L’incidenza di patologie cardiovascolari è inferiore rispetto all’uomo durante l’età fertile, va ad eguagliare l’uomo dopo la menopausa, fino a superarlo dopo i 75 anni. 

Malattie dell’osso

Di fronte all’osteoporosi, malattia ritenuta quasi esclusivamente femminile, la situazione si ribalta. Sugli uomini è studiata poco o nulla. L’osteoporosi, e il conseguente aumento del rischio di frattura, vengono studiate prevalentemente nella donna, sebbene, con ritardo di 10 anni, anche l’uomo nella terza età ne soffra con una percentuale che sfiora il 10 per cento. 

Malattie psichiatriche

Le indagini sulla salute mentale hanno rivelato un forte divario tra uomini e donne nella frequenza di alcuni disturbi psicologici. Le donne risultano infatti molto più colpite da depressione maggiore, ansia, fobie e disturbi dell’umore rispetto agli uomini, che invece presentano tassi più alti di disturbi antisociali e di dipendenze da sostanze e alcol.

Dietro queste differenze c’è spesso una maggiore esposizione delle donne a eventi traumatici e stressanti: si stima che tra il 16 e il 50% delle donne subisca violenze fisiche, sessuali o psicologiche nel corso della vita. Questi eventi sono fattori di rischio noti per patologie come depressione, disturbo post-traumatico da stress e disturbi dissociativi, problematiche più comuni tra le donne e spesso accompagnate da sintomi fisici senza una causa precisa.

Oncologia

In oncologia, le differenze di genere sono un tema chiave, eppure le donne sono state spesso escluse dalle sperimentazioni cliniche in aree non specificamente legate al genere, come i tumori che colpiscono entrambi i sessi.

Nei trial clinici oncologici misti, infatti, le donne rappresentano il 38,8% del campione. Questo squilibrio è problematico, considerando che la risposta ai trattamenti, come la chemioterapia, e le caratteristiche cliniche delle neoplasie possono variare sensibilmente tra i sessi.

Tuttavia, tali differenze sono raramente integrate nella pratica clinica e nelle linee guida.

Un esempio rilevante è il cancro al polmone.

Dal 1950 a oggi, la mortalità femminile per questo tumore è aumentata del 500%, e le donne, anche non fumatrici, hanno 2,5 volte più probabilità di svilupparlo rispetto agli uomini.

Le cause di questa disparità non sono ancora del tutto chiare e vanno oltre i fattori ormonali, coinvolgendo probabilmente elementi genetici e metabolici. In questo contesto, gli estrogeni potrebbero avere un ruolo negativo, poiché alcuni tumori esprimono recettori per questi ormoni, suggerendo un meccanismo da indagare a fondo, come è stato fatto per i tumori alla prostata e al seno.

Il cancro al colon è la seconda causa di morte per entrambi i sessi in Europa e negli Stati Uniti, ma presenta caratteristiche diverse tra uomini e donne.

Nelle donne, si manifesta mediamente cinque anni più tardi rispetto agli uomini, prevalentemente nel colon ascendente, e la mortalità è ritardata di cinque anni. Questo suggerisce che, per le donne, lo screening andrebbe esteso oltre i 70 anni per aumentare le possibilità di diagnosi precoce.

Anche nel melanoma si osservano differenze significative: negli uomini si localizza più frequentemente sul tronco, mentre nelle donne agli arti, con una sopravvivenza generalmente migliore per le pazienti femminili.

Nel cancro alla tiroide, invece, le donne hanno tassi di incidenza più alti, ma gli uomini sono a maggior rischio di una prognosi sfavorevole. Le ragioni di queste differenze non sono ancora del tutto comprese, anche se si ipotizza un ruolo importante degli ormoni.

Le differenze di genere restano quindi un elemento fondamentale da considerare in oncologia, non solo per i tumori esclusivi di un genere come quello alla prostata o alle ovaie, ma anche per quelli comuni a entrambi i sessi, dove variabili come aggressività, progressione e risposta alle terapie (inclusa l’immunoterapia) possono cambiare notevolmente tra uomini e donne.

Pediatria

Il genere può influenzare profondamente lo sviluppo psico-fisico di una persona sin dai primi anni di vita, con differenze che emergono già durante la fase fetale. Ad esempio, i maschi hanno una maggiore probabilità di nascere con parto cesareo o in condizioni di prematurità rispetto alle femmine.

In età pediatrica, i dati mostrano ulteriori disparità legate al genere. Per alcune malattie infettive, come bronchiolite, osteomielite e meningite meningococcica, l’incidenza è più alta nei maschi. Tuttavia, le femmine sviluppano una risposta immunitaria più forte e duratura che le protegge maggiormente dalle infezioni, ma le espone anche a un rischio aumentato di patologie autoimmuni e infiammatorie.

Le differenze emergono anche nei disturbi dello sviluppo neurologico: i maschi presentano una maggiore incidenza di disordini dello spettro autistico (DAS), ma nelle femmine, la diagnosi è spesso associata a una forma più grave della patologia e a un quoziente intellettivo inferiore.

Anche il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) colpisce molto più frequentemente i maschi.

Alcune differenze si riscontrano persino in ambito oncologico e nelle malattie metaboliche: i maschi, ad esempio, sono più soggetti a linfomi e tumori cerebrali, mentre le femmine hanno tassi più elevati di diabete di tipo I. Anche per l’asma, l’incidenza è maggiore nei maschi, mentre le patologie autoimmuni colpiscono più frequentemente le bambine.

Queste differenze di genere in ambito pediatrico richiedono una maggiore attenzione clinica, per sviluppare approcci terapeutici e preventivi mirati, adattati alle specifiche esigenze di salute dei bambini e delle bambine fin dai primi anni di vita.

A che punto siamo

Il Piano nazionale è legge, scritta nero su bianco. Eppure, sei anni dopo, c’è ancora tanto lavoro da fare. 

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