Lo storico Mondini: «La Resistenza sancì il diritto dell’Italia a scrivere un futuro libero e democratico»

L’analisi dello studioso: «I partigiani furono dalla parte giusta della storia. L’invito alla “sobrietà”? Nasconde tutto il fastidio della destra radicale»

Diego D'Amelio
Un gruppo di informatori della brigata "Basovizza" con alcune attiviste, nel 1944.
Un gruppo di informatori della brigata "Basovizza" con alcune attiviste, nel 1944.

Professor Marco Mondini, docente al Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Padova e volto conosciutissimo di Rai Storia: siamo a ottant’anni dalla Liberazione, qual è oggi il senso di questa ricorrenza?

«Una data fondamentale per definire l’identità della nuova Italia, che è democratica e antifascista. Il 25 aprile nasce come festa nazionale nel 1946: la decisione fu voluta dal governo De Gasperi, l’ultimo che teneva ancora insieme tutte le anime della Resistenza. Quella classe dirigente vuole affermare che la libertà gli italiani se la sono conquistata da soli, con le proprie armi e il proprio sangue, per avere voce in capitolo sul proprio domani, per rivendicare il diritto di immaginare un’Italia diversa. Solennizzando questa data ricordiamo che le città del Nord Italia si sono liberate sconfiggendo i tedeschi prima dell’arrivo degli alleati. Ricordiamo che con le armi gli italiani si sono conquistati il diritto a sognare il proprio futuro e non essere solo vittime passive della storia».

Lo storico Marco Mondini
Lo storico Marco Mondini

Lei insegna storia contemporanea all’Università di Padova: quanto ne sanno i ragazzi di questa data? E negli italiani il 25 aprile muove ancora qualcosa?

 

«Il 25 aprile è stato ben presto percepito come una data che divide e frantuma, perché ricordava alle cattive coscienze che qualcuno si è sacrificato per l’Italia nuova, mentre altri sono rimasti a combattere per rimanere schiavi. Nei primi anni della Repubblica, la data è stata odiata da alcuni segmenti della società: non solo dagli sconfitti che si erano intruppati nel Msi, ma pure della parte conservatrice della società italiana, ostile al protagonismo dei partigiani in un’Italia in cui le forze della Resistenza si spaccarono nel 1947. I ventenni di oggi hanno un’idea sbiadita di cosa sia stata la guerra di Liberazione. Parliamo di giovani cresciuti nell’Italia postberlusconiana, quando il paradigma antifascista è entrato in crisi. Il compito dello storico è oggi più che mai fondamentale, anche perché la generazione dei testimoni sta scomparendo. Lo storico assume un ruolo ancor più importante per la possibilità di spiegare gli eventi dalla giusta distanza, evitando gli eccessi delle passioni che spesso hanno egemonizzato il racconto del 25 aprile».

 

L’identità plurima della Liberazione al confine orientale: perché il 25 aprile fa così paura
La redazione
Una folla di ragazzini festanti aspettano il presidente della repubblica.

Celebrare con sobrietà, dice il ministro Musumeci, in riferimento alla morte del Papa. Parole di cordoglio o antipatia per la ricorrenza?

«Il 25 aprile è sempre stato celebrato in modo sobrio, essenzialmente come il ricordo dei caduti e della fine della guerra civile. Evocare la sobrietà – come già fece il governo conservatore della Dc nel 1948 – nasconde oggi il fastidio che alberga in molti ambienti della destra, che faticano a dover ricordare l’esito della guerra e la sconfitta di chi si è schierato dalla parte sbagliata della storia».

La destra di governo a che punto è nell’elaborazione del suo rapporto con il Fascismo?

«Come tutte le destre radicali europee, è molto indietro nel fare i conti con la storia. Qualsiasi simbolo, busto, inno, atto che rimandi alla storia del Fascismo e del neofascismo è un tradimento dello spirito della Costituzione. L’Italia è un paese democratico e liberale grazie al fatto che qualcuno è morto combattendo dalla parte giusta: se tutti i morti meritano pietas, non tutti i caduti possono essere ricordati allo stesso modo. Una destra che si professa di governo, dopo aver giurato sulla Costituzione, deve condannare e rifiutare tutto quanto legato al Fascismo e alla Rsi: non esiste il folclorismo, va tutto buttato nel cassonetto della storia».

Quanto hanno pesato le troppe continuità tra Fascismo e Italia repubblicana – a cominciare dalle mancate epurazioni – nel determinare il fatto che il 25 aprile sia considerato ancora da troppi come una festa divisiva?

«Tantissimo. La lunga transizione del dopoguerra non vede vincitrici tutte le forze uscite dalla Resistenza. Buona parte del personale nominato durante il Ventennio non vede con simpatia né la nuova Repubblica né i partigiani, che nel dopoguerra vengono spesso raccontati come banditi o rivoluzionari comunisti. Narrazioni che puntano a delegittimare la guerra di Liberazione e che sono arrivate fino a noi».

Cosa rispondere all’argomento “tanto ci hanno liberato gli Alleati”? La Resistenza fu un fatto solo politico o anche militare?

«La guerra di Liberazione fu una guerra. Ho cercato di spiegarlo in un paio di capitoli del libro Il ritorno della guerra (Il Mulino). A partire dagli anni Sessanta, però, chi si riconosce nei valori democratici ha teso a svilire il carattere bellico della Resistenza. Riconoscere che invece fu uno scontro armato contro il nazifascismo è fondamentale. E non si può svilire l’impatto militare dei partigiani, che attuarono una guerriglia fondamentale nell’indebolire le forze Rsi e gli occupanti nazisti. Combatterono 250 mila partigiani, di cui almeno 35 mila donne, che poggiavano su una rete di supporto di centinaia di migliaia di persone: probabilmente un milione di italiani fu attivo in qualche modo. E poi c’erano le forze militari del Regno del Sud. Ferruccio Parri ricorda come la libertà sia stata conquistata con il sangue e come non potesse esistere l’Italia senza una guerra di liberazione e di popolo. Questo bisogna ribadirlo oggi, davanti a chi a sinistra oggi fa professione di antifascismo, ma non riesce a pronunciare la parola guerra e a considerare che la guerra può essere anche un fatto giusto, condannando magari nel contempo il diritto degli ucraini di combattere per la propria libertà».

Al confine orientale la lotta antifascista visse vicende estranee al resto d’Italia: dalla presenza dell’occupazione diretta dei nazisti alle rivendicazioni dell’Esercito di liberazione jugoslavo, fino all’eccidio della malga di Porzûs. Esistono antifascisti buoni e antifascisti cattivi?

«Quello che so è che la Resistenza fu una galassia polimorfa, dove albergavano tanti programmi differenti di futuro. E dentro poteva trovarvi ospitalità non solo la necessità di un cambio radicale dell’Italia, ma anche quella di instaurarvi un regime di stampo sovietico. Allo stesso modo la Jugoslavia comunista era un grande mito politico attrattivo. Porzûs non fu l’unico episodio di eccidio. La Resistenza non fu una favola, ma una tensione ideale che si spinse anche fino allo scontro fratricida. Queste pagine scomode vanno raccontate e non nascoste».

Nella Venezia Giulia il dibattito sulla Resistenza è stato oscurato per decenni dai quaranta giorni di occupazione jugoslava e dalle Foibe. A posteriori come possiamo valutare quel terribile passaggio fra guerra e dopoguerra?

«Il percorso di uscita dalla guerra può essere anche più brutale della guerra in sé. E non può sorprendere che questa transizione al confine orientale fosse segnata da violenze. Dal 1914 questa frontiera vive tensioni etniche, nazionalistiche, ideologiche. È una zona di faglia, dove confliggono forze contrarie che si contendono il territorio. Ma va ricordato che le brutalità dell’occupazione titoista sono anche il frutto delle politiche aggressive del Fascismo, che dal 1923 punta a deslavizzare la Venezia Giulia e che dal 1941 attua un’occupazione violenta e brutale nelle terre della Jugoslavia. Questo non legittima le Foibe, ma le spiega all’interno della natura profonda di una guerra totale». —

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