Quando gli emigrati eravamo noi: l’esodo dal povero Nord Est con il sogno del Brasile

Alla fine dell’800 i reclutatori di manodopera contadina promettevano guadagni facili, ma una volta a bordo gli emigranti scoprono l’amara verità nascosta dietro le promesse ricevuteGià il viaggio era un calvario. 150 anni dopo resta forte la memoria identitaria

Francesco Jori
L’arrivo in Brasile di una nave di emigranti dal Nord Est dove a fine Ottocento era crisi nera
L’arrivo in Brasile di una nave di emigranti dal Nord Est dove a fine Ottocento era crisi nera

È crisi nera, per il Nord Est dell’epoca, nell’ultimo scorcio di fine Ottocento. Ci sono tutte le premesse per innescare quel fenomeno dell’emigrazione che provocherà una vera e propria emorragia di abitanti: il Veneto (che all’epoca include anche il Friuli) precede lo stesso Meridione come serbatoio di manodopera. Nei dieci anni compresi tra il 1887 e il 1897 se ne vanno dall’Italia 1.050.924 persone, di cui 288.853 dirette in Brasile e 52.484 in Argentina.

L’area veneto-friulana perde il 15 per cento della popolazione; percentuale che raddoppia in quasi tutto il Polesine e nella fascia delle Basse veronese, padovana e veneziana, ma anche nel sud del Trevigiano e nella Carnia. La stragrande maggioranza è rappresentata da lavoratori della terra: piccoli proprietari, mezzadri, fittavoli, contadini, braccianti. Il tasso medio annuo di emigrazione, che nell’intero Paese è del 3,77 per mille, in Veneto sale all’8,14: la quota più elevata, supera il Meridione.

L’abolizione della schiavitù

Il Brasile diventa da subito la meta privilegiata per un fattore specifico: l’emanazione della cosiddetta “legge del ventre libero”, che concede la libertà ai nati da schiava; di fatto, viene abolita la schiavitù, innescando di conseguenza la necessità di trovare manodopera in grande quantità e con bassa remunerazione. Società colonizzatrici e compagnie di navigazione, fiutando l’affare, si gettano a capofitto nel reclutamento, dandosi un’organizzazione efficiente e capillare, che fa leva sulla figura dell’agente di emigrazione: è lui a battere a tappeto le campagne, in cerca di famiglie schiacciate dal peso dei debiti, prospettando ai contadini miraggi di facili guadagni, e organizzando il viaggio. D’altra parte, il lavoratore veneto è particolarmente ricercato: come spiega un rapporto consolare dell’epoca, lo si considera “instancabile, tranquillo, dolce, remissivo, morigerato, poco esigente, difficilmente sindacalizzabile, restìo all’organizzazione a fini di resistenza e di rivolta”.

Un calvario dietro le promesse

Da subito sono in migliaia ad aderire, ma il loro si rivela da subito un calvario: si raggiunge Genova prima a piedi dai rispettivi paesi fino a Venezia, Padova, Verona, e poi in treno con un viaggio estenuante che dura giorni. Lì ci si imbarca sui grandi bastimenti a vapore, dove una volta a bordo, gli emigranti scoprono l’amara verità nascosta dietro le promesse ricevute.

Il rancio è scarso e di pessima quantità; si dorme nella stiva, maschi da una parte e donne con i bambini dall’altra, e a bordo spesso scoppiano epidemie e infezioni; una volta giunti a destinazione, viene requisito il passaporto.

Le testimonianze

A documentare come si vive dall’altra parte dell’oceano provvedono testimonianze autorevoli; tra cui quella di don Domenico Munari, parroco di Fastro, tra Arsiè e Cismon del Grappa, che ha seguito i suoi parrocchiani emigrati in Brasile:

La maggior parte maledice il giorno che fu scoperta l’America, maledicono lo scopritore, l’emigrazione, ed il giorno della loro partenza per queste parti e desidererebbero essere miseri e nudi in patria piuttosto di vedersi privi di ogni cosa in mezzo a queste antiche selve, senza speranza di rimpatrio, e con poca speranza d’essere provvisti del necessario. Io che vidi come sono trattati i coloni, posso giurare che miserie uguali non ne ho piú viste.

Le lettere dei migranti

Bastano d’altra parte le lettere inviate in patria dai nostri emigrati a far cogliere l’amara verità. Come quella che il 20 novembre 1887 Antonio, Luigi e Felice Tacchetto, originari di Oderzo e trapiantati a Santa Maria Boca do Monte in Brasile, scrivono al fratello rimasto in Italia chiedendogli di andare “dal nostro padrone” a dirgli “che noi semo cogli ochi piangenti in ginochio pregando la sua bontà che avemo tute le nostre speranze in lui e lo preghiamo che ne leva da queste pene e che ne facia tornar in Italia che quando saremo la si asogetemo a qualunque sua condizione e con la nostra vita pagheremo le spese che incontreremo a venire alla patria”. E Nanni Partenio, friulano emigrato da San Giorgio della Richinvelda con destinazione Rosario in Argentina, scrive nel 1878 al padre: “La gente più infelice di questo mondo sono quelle povere famiglie, che vendetero tutte le sue sostanze in Italia per venire trasferirsi su queste terre”.

Valori saldi e identità

Pur lontani migliaia di chilometri da casa, pur costretti a vivere in condizioni proibitive, veneti e friulani mantengono saldamente i valori tradizionali in cui sono cresciuti in patria: la centralità della famiglia, l’importanza della pratica religiosa, il senso di solidarietà.

E conservano gelosamente il loro patrimonio identitario: al punto che ancor oggi nelle aree sudamericane di emigrazione si parla un dialetto e si celebrano feste e riti più genuini di quanto non accada in patria.

Ne è esemplare testimonianza il “taliàn”, linguaggio riconosciuto nel 2014 dal governo federale di Rio de Janeiro come “patrimonio immateriale del Brasile”, e attualmente parlato da non meno di mezzo milione di persone, specie negli Stati di Rio Grande do Sul e Santa Catarina; è frutto di incroci dialettali in larga parte veneti, ma anche lombardi e portoghesi.

Nel 2013 è nata una rivista, “Brasil Talian”, allo scopo di diffonderne l’uso; al “taliàn” sono stati inoltre dedicati due dizionari e una grammatica, oltre a un progetto di insegnamento tramite la musica. La prova del robusto radicamento veneto specie in Brasile è comprovata inoltre dall’esistenza di numerose località che ripropongono il nome proprio della madre patria: Nova Venezia, Nova Padua, Nova Treviso, Nova Vicenza, Nova Bassano… Testimonianza di un’eredità più viva che mai dopo un secolo e mezzo. —

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