Mauro Giacca sull’opportunità dell’Italia di attrarre i ricercatori in fuga dall’America di Trump
Il docente triestino a Londra argomenta come la tempesta abbattutasi sulle università Usa potrebbe ridisegnare la mappa globale della ricerca

La tempesta politica che si è abbattuta sulle università americane potrebbe ridisegnare la mappa globale della ricerca.
Il presidente Donald Trump ha messo nel mirino atenei prestigiosi come Harvard e Princeton, minacciando di tagliare miliardi in finanziamenti federali.
L’accusa? Tollerare proteste “illegali” nei campus e promuovere ideologie divisive. Harvard ha risposto con fermezza, rifiutando di piegarsi alle richieste della Casa Bianca nonostante rischi di perdere oltre due miliardi di fondi. Una posizione applaudita dall’ex presidente Obama, che ha definito le azioni di Trump «illegali e maldestre».

Ma mentre gli Stati Uniti affrontano questo scontro, l’Europa osserva con interesse strategico. Ne abbiamo parlato con Mauro Giacca, triestino, professore di medicina molecolare e direttore del Dipartimento di Scienze cardiovascolari al King’s College di Londra.
Professor Giacca, l’Italia potrebbe trarre vantaggio dalle tensioni nelle università statunitensi per attrarre talenti internazionali?
«C’è molto scontento nel mondo accademico americano, che è in maggioranza democratico, liberale e inclusivo per definizione. Oltre ai problemi ideologici, c’è un taglio netto dei finanziamenti alle università. È già iniziato un esodo di ricercatori, non solo americani, ma anche di quella grande massa di talenti internazionali che hanno reso grande l’America. È un’opportunità, ma bisogna essere pronti a coglierla».
L’Italia è competitiva in questo scenario?
«Rispetto a Inghilterra, Germania e Nord Europa, abbiamo ancora strada da fare. In Germania esiste già un programma di finanziamento per chi arriva dagli Stati Uniti. Le università italiane dovrebbero poter finanziare questi arrivi in modo significativo, offrire laboratori e strutture d’eccellenza. Non è il cibo, il sole o la bella gente ad attrarre i ricercatori, ma principalmente i fondi e le infrastrutture. Ci sono alcuni poli d’eccellenza che potrebbero beneficiarne, come Milano e Torino, ma sono ancora l’eccezione».
Quali sono i principali ostacoli da superare?
«La carenza di finanziamenti, una burocrazia spesso soffocante nella gestione delle risorse e la mancanza di investimenti in infrastrutture moderne: per le Scienze della vita penso a microscopi di ultima generazione, stabulari, facilities per le nuove tecnologie. Paradossalmente, i ricercatori italiani sono tra quelli che vincono più grant europei, dimostrando l’eccellenza del nostro capitale umano. Ma molti, dopo aver vinto, portano il finanziamento in altri paesi che offrono strutture migliori».
In quali settori potremmo posizionarci meglio?
«Abbiamo una solida tradizione, per esempio, in Fisica teorica. Con investimenti mirati, potremmo rafforzare questi settori dove c’è già una consolidata tradizione e le attrezzature possono essere condivise. Le eccellenze esistono, ma vanno supportate e potenziate».
Quanto pesa la burocrazia nel reclutamento internazionale?
«Tantissimo. In Italia persiste il mito dei concorsi e tutti devono avere lo stesso salario, che non puoi negoziare. Negli Stati Uniti, i professori più brillanti hanno stipendi molto più alti. Qui è difficile reclutare talenti straordinari con stipendi standard, tranne in alcuni centri con strutture private che hanno più flessibilità».
L’Italia potrebbe giocarsi carte come qualità e costo della vita?
«La qualità della vita è certamente un asset importante. Ma è un po’ riduttivo pensare di attrarre qualcuno solo per questo. Servirebbero investimenti strutturali significativi. Un esempio promettente è il progetto Mind nell’area ex Expo a Milano: con finanziamenti dedicati potrebbe diventare un polo attrattivo per ricercatori di livello internazionale».
Nel suo caso, cosa l’ha portata a trasferirsi in Uk?
«La massa critica di ricercatori nella mia area. A Trieste avevo creato la cardiologia sperimentale, ma ero sostanzialmente solo. Qui al King’s College dirigo un dipartimento con 70 gruppi di ricerca, vicino a università come Oxford e Cambridge. Dal punto di vista personale, volevo concentrarmi sulla ricerca senza il peso della burocrazia, e qui ho potuto farlo».
Vede rischi di deriva trumpiana anche in Italia?
«No, non credo che il sistema democratico italiano lascerebbe spazio a scelte così radicali verso l’accademia. Siamo già in una situazione di scarsa attenzione per la ricerca, è difficile immaginare un’ulteriore compressione».
C’è il rischio che gli Usa perdano la loro leadership scientifica?
«Gli Stati Uniti finanziano la ricerca da cinque a dieci volte più dell’Italia, è per questo che sono leader. Ci vorrà molto tempo prima che perdano questa posizione, a meno che questa situazione non duri decenni. Credo però che già le elezioni di midterm fra un anno e mezzo potrebbero cambiare Congresso e Senato. Speriamo nella democrazia, che ci difenda tutti». —
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