Italiani poco colti e in difficoltà con le frazioni: Ocse fotografa le nostre incompetenze
Impietoso il report decennale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sulle competenze degli adulti nei 31 Paesi più industrializzati: siamo tra gli ultimi nella comprensione di testi base, incapaci di risolvere problemi anche semplici
Un popolo di eroi, santi, scienziati e navigatori, probabilmente. Ma anche una nazione abitata da troppi incolti, in cui un adulto su tre non sa sommare due frazioni elementari, e quasi la metà fatica a risolvere un problema semplice come trovare in fretta la via migliore da casa all’ufficio, passando per la scuola a lasciare i figli.
Il risultato di questa parata degli orrori è che fra i 31 Paesi più industrializzati del globo, l’Italia gravita agli ultimi posti nella classifica delle competenze, circostanza che denuncia, e condanna, la gestione del sistema scolastico e la capacità di formare persone in grado di ragionare e reagire compiutamente alle novità. Se non bastasse, negli ultimi dieci anni siamo pure peggiorati.
La fonte è l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, con il rapporto Piaac sulle “competenze degli adulti” che arriva ogni decennio.
I tecnici dell’organizzazione parigina hanno studiato i profili di milioni di cittadini, valutandone la capacità di comprendere un testo base e quella di far di conto, sino a dire che Finlandia, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia sono i Paesi più intellettualmente dinamici della Terra, mentre l’Italia – nonostante gli evidenti picchi di talento – si segnala per «una performance costantemente inferiore alla media».
Uno su tre dei nostri rasenta l’analfabetismo, fatica a collocarsi nel mondo che lo circonda e nella sua storia. Del resto, giusto la settimana scorsa, il Censis ci ha gelato rivelando che circa il 35 per cento degli italiani crede che l’Inno di Mameli sia frutto dell’indiscutibile genio di Giuseppe Verdi. Uno su tre, di nuovo. È una maledizione.
La valutazione è basata sulla definizione di sei livelli competenza. Il più basso è “meno di uno”, il più alto è il “cinque”. L’indice di alfabetizzazione sentenzia che il 10 per cento degli italiani sa «al massimo comprendere frasi brevi e semplici» mentre il 25 per cento è in grado di capire «testi brevi quando le informazioni sono chiaramente indicate».
Al contrario, solo il 30 per cento della popolazione ha la capacità di «valutare testi lunghi e densi su più pagine, e di utilizzare le conoscenze pregresse per comprendere scritti e completare compiti».
È l’«uno su tre» (quasi) composto dai migliori fotografati ai livelli 4 e 5, i cervelli avanzati su cui l’Italia costruisce il ruolo di Grande Paese, e va bene sino a quando si è costretti a osservare che, nella media Ocse, i primi della classe sono il 43 per cento degli adulti.
Quando si arriva all’aritmetica, le percentuali sono analoghe e così il divario. La catastrofe esplode alla voce «soluzione dei problemi da cui dipende l’adattamento».
Qui si trova che un misero 15 per cento di concittadini ha i mezzi per «una comprensione più profonda dei problemi e per reagire a cambiamenti imprevisti, anche se richiedono una rivalutazione importante del problema» (media Ocse: 32%). E che il 46 per cento, in sostanza metà degli adulti della Penisola, sa risolvere soltanto «problemi semplici con poche variabili che non cambiano man mano che avanzano verso la soluzione» (media Ocse: 30%). È sconfortante.
Come lo è constatare che il 15 per cento dei lavoratori svolge una mansione inferiore alla propria qualità, e il 18 per cento ne ha una per la quale non è abbastanza qualificato.
Enrico Giovannini, ex presidente Istat alla guida dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis), non è sorpreso. «Anche dieci anni fa l’Italia era in fondo alla classifica – ammette -; da allora non è stata impostata nessuna politica strutturale per l’educazione degli adulti».
A suo avviso, preoccupa soprattutto «la carenza nel problem solving che rende incapaci di affrontare sfide come la rivoluzione digitale». Inoltre, «la limitata alfabetizzazione pone anche un problema in termini di diritti di cittadinanza: se un terzo della popolazione fatica a seguire testi o discorsi di media complessità, è evidente che anche le scelte elettorali rischiano di essere influenzate da fake news o da una propaganda basata su messaggi ultra semplificati a fronte di problemi complessi».
L’economista sollecita «un piano pluriennale in materia, ben finanziato, disegnato coinvolgendo non solo gli esperti, pedagogisti, sociologi, giornalisti, ma anche la società civile».
I numeri dicono che non ci sarebbe scelta, visto che l’Italia spende appena il 4 per cento del Pil per l’istruzione. È meno di quanto paga per gli interessi sul debito. Meno della Danimarca, per dirne una, che nelle graduatorie Ocse naviga tranquilla ai piani altri e ci guarda da lassù.
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