Il sociologo Boccia Artieri: «Sui gruppi online si polarizza il pensiero: questo è un rischio per la democrazia»
Tra i protagonisti del Festival Parole O_Stili anche il docente di Sociologia a Urbino, studioso dei social media dove «l’appartenenza emotiva sui vaccini o i migranti mina il dialogo»

In un mondo sempre più mediato da schermi e algoritmi, la polarizzazione digitale e l’intelligenza artificiale plasmano la comunicazione e trasformano la democrazia dai margini, al di fuori del sistema mediatico e politico tradizionale. Un fenomeno che studia Giovanni Boccia Artieri, sociologo dei media digitali all’Università di Urbino, cercando di fornire strumenti per un’interazione consapevole. Sarà protagonista di due workshop al Festival della Comunicazione non ostile.
Professore, come si è evoluta la polarizzazione digitale e quali sono i suoi impatti più profondi?
«La polarizzazione non è più solo ideologica, ma affettiva. Temi polarizzanti come i vaccini o i migranti diventano questioni di appartenenza emotiva, frammentandoci in gruppi che amplificano le nostre convinzioni. Se sempre più persone si informano online, su gruppi Telegram o Whatsapp, si creeranno nicchie che aumentano il tasso di polarizzazione del pensiero. Il mio primo workshop, legato a un progetto di ricerca sulla “fringe democracy”, mira a fornire strumenti per riconoscere e disinnescare queste dinamiche tossiche. Perché se la democrazia è l’arte di ricomporre le differenze, alzare il livello di polarizzazione rischia di metterla in crisi».
Le piattaforme fringe, come Telegram, hanno un ruolo chiave nella radicalizzazione. Come mai?
«Grazie all’assenza di controllo sui contenuti, Telegram crea gruppi coesi dove si radicalizzano i pensieri. Durante la pandemia, ad esempio, era lì che si trovavano i green pass falsi. Questa “galassia disinformativa” porta a verità alternative che influenzano le nostre decisioni politiche, sul benessere psicofisico e la spiritualità, e che poi emergono nel dibattito pubblico».
Nel suo workshop sulla polarizzazione parlerà di pratiche tossiche che degradano il dibattito pubblico, può farci qualche esempio?
«La disinformazione strutturata, per scopi economici o politici, l’uso dell’ironia e dei meme per rendere accettabili messaggi polarizzanti, e il rage-farming, che sfrutta l’indignazione per generare traffico. Queste tecniche inquinano il dibattito pubblico e minano la comunicazione».
Cosa pensa della decisione di Meta di ridurre il fact checking?
«Anche se non è in grado di eliminare la disinformazione, il fact checking crea un contesto culturale critico. Togliendolo si indebolisce la capacità di discernimento delle persone e si rinuncia a un principio etico fondamentale: la distinzione tra fatti e opinioni non può essere demandata al voto popolare».
Come si inserisce l’Ai in queste dinamiche?
«Può aiutarci a tradurre e a riconoscere messaggi tossici, ma anche a generare disinformazione su larga scala. Il nostro “Manifesto per la comunicazione non ostile nell’ambito dell’Ai” , scritto insieme ai ragazzi e con l’ausilio dell’Ai, definisce principi etici per un uso responsabile di queste tecnologie: dobbiamo imparare a interagire con l’Ai in modo critico».
Quali sono le principali differenze generazionali nell’approccio ai social e alla disinformazione?
«Sono differenze che hanno a che fare con lo stile e i social media preferiti. Se su Facebook una battuta di un politico può scatenare polarizzazione, su TikTok diventerà una challenge musicale. L’ironia e i meme sono più vicini ai giovani, mentre un linguaggio più tossico si trova nel mondo boomer. Anche la capacità di riconoscere video fake varia: i giovani spesso li individuano più facilmente, grazie alla loro familiarità con i linguaggi digitali». —
Riproduzione riservata © il Nord Est