Quei ragazzi violenti figli della velocità
Guardare, riflettere e scrivere è materia per un mondo lento lontano da questa generazione. La famiglia, come ente formatore, perde progressivamente di ruolo nella furia del presente
La lettera della madre di un amico di Francesco Favaretto, il ventiduenne accoltellato dal branco in centro a Treviso il 12 dicembre e morto undici giorni dopo, ha raccontato l’odissea e lo smarrimento che molte famiglie attraversano interrogando la società sull’indifferenza e il moralismo spicciolo.
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C’è un apprezzabile sforzo di interpretare i fenomeni legati al comportamento di frange giovanili, culminati anche in terribili episodi di violenza. In realtà nell’intero Paese si agitano correnti di aggressività che si scaricano su figure che, per professione, si prendono cura o hanno rapporti con gli altri: medici, infermieri, insegnanti, autisti, controllori e capitreno. Quella delle bande giovanili, spesso giovani contro giovani, è solo una componente di questa furia ben più ampia e non transitoria.
Ma limitandoci al comportamento giovanile, molti esperti, utilizzando le proprie competenze, analizzano il fenomeno con diverse profondità: chi scopre un “colpevole”, chi cerca di descrivere un processo.
Provo a cimentarmi con questo fenomeno, utilizzando la mia storia famigliare e la mia esperienza di docente.
Assumo come punto di partenza la generazione del mio nonno paterno che mise al mondo tredici figli e aveva un orto e un pollaio. Era il mondo contadino, l’amore per la forza lavoro prodotta in famiglia. Dei suoi tredici pargoli, nessuno ha messo al mondo più di quattro figli. Erano transitati nel mondo dell’industria, quella degli anni ’60 e ’70, senza orto e pollaio. Mio padre ebbe tre figli. Io una figlia. Mia figlia un solo figlio. Siamo il prodotto dell’industria moderna.
Il passaggio, nell’arco di 55 anni, a mondi diversi è stato segnato, come si vede, da una diminuzione del tasso di natalità.
Mentre la ricchezza, nella alte sfere sociali, si è allargata ulteriormente, in basso, per caduta, si è avuto più benessere. Ma questo maggior benessere ha avuto bisogno di una forte intensità lavorativa, certo non necessariamente fatica muscolare, compensato con l’accesso ad una sterminata quantità di oggetti.
Non c’è nessun autentico modello educativo in tutto questo, si tratta di economia applicata alla quotidianità: poco ai tanti, di più se pochi. Ogni figlio, nel caso di mio nonno, valeva una frazione del tutto e, nel mio caso, una è tutto. Cambia la densità, il potere contrattuale del figlio, le aspettative, le ansie, le preoccupazioni. La generazione dei genitori “rigidi” era semplicemente quella di un mondo semplice e i loro figli, diventati “molli”, si misurano con la complessità.
Non c’è mai stata un’epoca d’oro della famiglia, se intesa come luogo idilliaco di relazioni entusiasmanti e regole efficaci. È un luogo complesso, dove spesso giovani persone si trovano a gestire l’educazione dei figli senza averne compreso tutte le dinamiche. Si è passati da famiglie come sistemi se non chiusi abbastanza isolati, a sistemi sottoposti all’intenso flusso di trasformazioni che caratterizza la società moderna. Perché la società moderna è fondamentalmente velocità e la velocità tende a modificare le regole, tranne quella di fare molti soldi subito.
Velocità che è entrata nel salotto familiare prima in punta di piedi, con poca televisione, e poi con moltissima televisione e poi con moltissima Rete. I giovani con videogiochi spessissimo violenti, telefonino ubi maior e social demenziali. Educati dalla velocità fotografano tutto e si inviano vocali: guardare, riflettere e scrivere è materia per il mondo lento. Peccato che il mondo veloce sia complesso e non sia comprensibile alla maggior parte di chi ne usa gli strumenti che ne plasmano i comportamenti.
I modelli comportamentali civili, anche quando vi fossero genitori capaci di trasmetterli profondamente (ciò implica molta energia personale), sono sottoposti senza tregua a spinte modificatrici. Resistervi è difficilissimo e la famiglia, come ente formatore, perde progressivamente di ruolo: balla al ritmo del mondo veloce.
Ruolo educatore che sta perdendo anche la scuola, luogo di intersezione di soggetti modellati da un’epoca ormai distantissima da quando si sono formati programmi, metodologie, modalità comunicative. Anche questo è un processo, come la crisi famigliare, che il mondo veloce non potrà che accentuare.
In quasi quarant’anni di insegnamento ho assistito a grandi mutazioni generazionali. Rilevo, tra le tante cose, la diversa accelerazione sensoriale e motoria degli studenti: più difficoltà a stare fermi, meno attenzione alle parole, meno parole. La vita è altrove, rispetto al banco. Aggiungerei, negli ultimissimi anni, più tristezza. Scarsissimo senso del futuro.
E’, per concludere, colpa dei genitori per come stanno andando le cose tra i giovani?
Sì, se adottiamo il criterio puntiforme: l’energia genitoriale è assorbita dall’essere solo lavoratori e consumatori, quindi è una colpa non mettere in atto alcuna azione correttiva per essere educatori.
No, se adottiamo un criterio che considera il movimento della società: è la collettività a non comprendere che un soggetto non può essere al 100% lavoratore, al 100% consumatore, al 100% genitore. Far crescere gli educatori è un immenso, ma produttivo, sforzo che, semplicemente, obbliga una società a lavorare per il futuro.
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