Smartworking e salute mentale: cosa ci ha insegnato davvero la pandemia?

Uno studio europeo condotto dalle Università di Venezia e di Padova e l’Ifo Institute di Monaco, svela gli effetti nascosti del lavoro da casa sugli over 50. Le più colpite? Donne, single e genitori con figli conviventi: ecco i risultati della ricerca 

Elia Cavarzan
Smartworking e salute mentale: la nuova ricerca
Smartworking e salute mentale: la nuova ricerca

Durante i lunghi mesi della prima ondata pandemica, in molti abbiamo trasformato il tavolo della cucina in una scrivania. Il lavoro da remoto è stato il salvagente che ha permesso a milioni di persone di continuare a lavorare in sicurezza. Ma dietro la comodità del pigiama e la flessibilità apparente, si nascondeva un prezzo psicologico. E per alcune categorie di persone, quel prezzo è stato particolarmente alto.

È quanto emerge da una nuova ricerca firmata da economisti dell’Università Ca’ Foscari Venezia, dell’Università di Padova e dell’IFO Institute di Monaco, pubblicata sulla rivista Journal of the Economics of Ageing. Il focus? Gli over 50, una fascia spesso trascurata nel dibattito sul benessere lavorativo.

Non tutti vivono lo smartworking allo stesso modo

Lavorare da casa, infatti, non ha avuto lo stesso impatto su tutti. Il team di ricerca ha analizzato i dati della Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe (SHARE), un’indagine paneuropea che raccoglie informazioni dettagliate sulla salute, la vita lavorativa e la situazione familiare degli over 50 in 27 Paesi.

Risultato? Le donne, le persone single e chi convive con figli sono state le più esposte ai sintomi depressivi durante il lavoro da remoto. Rispetto a chi ha continuato a lavorare in presenza, queste categorie hanno riportato un aumento significativo di disagio psicologico.

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La redazione
Nord Est Multimedia insieme al Dipartimento di Scienze Statistiche dell'Università di Padova

Non solo stress e ansia, ma anche isolamento, incertezze economiche e difficoltà a gestire la vita familiare e lavorativa sotto lo stesso tetto.

«L’effetto è risultato ancora più marcato in quelle aree dove il virus circolava meno, ma le restrizioni erano molto rigide –  spiega Giacomo Pasini, professore a Ca’ Foscari e direttore del Dipartimento di Economia – Un paradosso solo apparente: chi si sentiva al sicuro dal virus, ma era bloccato in casa, ha sperimentato un forte senso di solitudine e frustrazione.”

Quando il lavoro da casa diventa una trappola

Nel corso della pandemia, la narrazione mainstream ha spesso dipinto lo smartworking come un’opportunità. Ma per molti, soprattutto tra i senior, è stato una sfida: l’assenza di interazioni quotidiane, la difficoltà nell’adattarsi alla tecnologia, la separazione sottile tra lavoro e vita privata.

Marco Bertoni
Marco Bertoni

«Non si può parlare di un’esperienza universale del lavoro da remoto –  aggiunge Marco Bertoni, professore di Economia a Padova. «Ci sono state differenze nette basate sul genere, sulla struttura familiare e sulla condizione sociale».

Ecco perché i ricercatori invitano ora aziende e istituzioni a non ripetere gli stessi errori: il lavoro da remoto può funzionare, ma deve essere su misura. Serve flessibilità, serve ascolto, servono strumenti che tutelino il benessere mentale tanto quanto la produttività.

Verso un futuro (più) umano del lavoro

Lo smartworking non è una moda passeggera: è ormai parte integrante della vita lavorativa contemporanea. Ma questo studio dimostra che se vogliamo renderlo davvero sostenibile, serve più consapevolezza.

Non bastano le call su Zoom o i team virtuali. Bisogna guardare oltre: ai vissuti personali, ai bisogni emotivi, ai carichi familiari.

Perché il lavoro non è solo ciò che facciamo, ma anche come ci fa sentire.

 

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