«Software defined reality»: a cosa ci dovremo abituare e come potremmo gestire il potere delle IA

Intervista a padre Benanti: lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è radicale e inarrestabile. Le potenzialità del Cloud non saranno facilmente governabili

Massimiliano CannataMassimiliano Cannata
09/11/2023 Roma, palazzo Chigi, riunione del Comitato interministeriale per la transizione digitale. Nella foto Paolo Benanti, professore della Pontificia Università Gregoriana
09/11/2023 Roma, palazzo Chigi, riunione del Comitato interministeriale per la transizione digitale. Nella foto Paolo Benanti, professore della Pontificia Università Gregoriana

La progressiva diffusione dell’intelligenze artificiale ha cambiato i processi conoscitivi e il nostro modo di essere nel mondo. La svolta non è solo di natura tecnica, ma spirituale e filosofica. Padre Paolo Benanti, consigliere del Papa, esperto di bioetica e neuroscienze, ci parla del futuro che ci aspetta.

Padre Benanti, il Nobel attribuito a John Hopfield e Geoffrey Hinton è solo l’ultima conferma dell’universale interesse che sta suscitando lo sviluppo dell’IA. È davvero così profonda la rivoluzione in atto?

«È un “salto di paradigma” radicale e inarrestabile, che sta condizionando le agende dei governi. Fin dagli albori della civiltà l’uomo si è attrezzato di strumenti adeguati per preparare il suo lungo viaggio verso il progresso. L’artefatto tecnologico è la nostra “traccia” che serve ad abitare la realtà. C’è stata una stagione in cui l’artefatto è stato un utensile legato alla mano poi è sopraggiunta la rivoluzione industriale ed è arrivata la macchina, che programmata e guidata dall’uomo è in grado di fare delle operazioni senza mai stancarsi. Ma bisogna fare un passo indietro per capire quello che in pochi anni ha trasformato abitudini e stili di vita».

A cosa si riferisce?

«Agli anni difficili del secondo conflitto mondiale quando nei celebri Bell Labs americani non è stata, infatti, solo ridefinita la realtà dell’informazione, perché è stato introdotto un componente essenziale, il transistor, la cui diffusione massiva avrebbe cambiato per sempre la natura degli oggetti intorno a noi. Da quel momento gli “utensili” che ci ha messo a disposizione la telematica si sono differenziati profondamente dagli strumenti della modernità. Il concetto stesso di macchina è stato profondamente trasformato dal software e dall’elettronica. Le macchine moderne sono dotate di sensori intelligenti, la loro anima è fatta ormai di algoritmi, l’alto livello di automazione e precisione, consentirà grazie alle reti neurali applicazioni straordinarie pensiamo alla sanità, ai trasporti. Questa accelerazione, in futuro si accentuerà, ha però sfocato la linea del percepibile. Un esempio concreto: la macchina contenuta in un singolo robot è di fatto distribuita in uno spazio digitale e intangibile: il cloud, le cui potenzialità non sono facilmente governabili».

Sono dunque giustificate le paure diffuse che l’IA possa sopravanzare l’intelligenza umana?

«Lascerei da parte il timore irrazionale che accompagna sempre le scoperte sconvolgenti. Dobbiamo piuttosto imparare a gestire un nuovo potere, il potere computazionale, in cui la realtà è definita dal software. L’auto è l’emblema di questa trasformazione. Non negoziamo più il suo acquisto, possediamo solo la licenza d’uso degli oggetti. Possiamo, una volta acquistato, usare a nostro piacimento lo smartphone, ma lo sfruttamento dei dati che convergono su quel bene, che sia un cellulare o un’auto è solo parzialmente e temporaneamente appannaggio nostro. Le stesse gerarchie di potere si stanno modificando, mentre le categorie del possesso e della sicurezza stanno mutando il loro profilo. È evidente che ci sarà molto da lavorare non solo per gli scienziati, ma anche per giuristi, economisti, filosofi».

Che cosa comporterà, in prospettiva, questa “transistorizzazione” dell’ambiente in cui viviamo?

«Che la realtà sarà sempre più definita dal software. Se in un negozio oggi per un motivo qualsiasi la connettività viene meno, cambia la natura di quel luogo. Pensiamo a un supermercato, se privo di connessione non sarà possibile fare nessuna transazione, né verificare quello che c’è in magazzino. Se un ransomware (virus molto diffuso che danneggia le reti telematiche, n. d. r.) informatico si insinua nei sistemi IT di un ospedale, si arrestano le sale operatorie, si congelano le terapie, con le conseguenze del caso. Gli addetti ai lavori la chiamano “software defined reality” ed è la frontiera su cui si giocano le prossime sfide».

Quello di cui parla somiglia al “regno delle non-cose”, teorizzato dal filosofo di Seul, Byung-chul Han. Come dovremo orientarci?

«Impegnandoci nel disinnescare i possibili scopi dannosi che attori interessati e malintenzionati potranno fare dell’intelligenza generativa, che potrà diventare un’atomica linguistica per la capacità di manipolazione semantica. Abbiamo a che fare con un’altra specie di “sapiens” che abita il pianeta, per affermare la “sostenibilità digitale” dobbiamo rimettere al centro l’individuo e i suoi bisogni. Se ormai l’”anima del mondo” è data dal software, il tesoro che muove economia e società è rappresentato dai dati e dalle informazioni. Quello che dobbiamo affrontare, mi riferisco in particolare alla nostra Europa oggi sconvolta dalla guerra dopo aver sperimentato il disastro del totalitarismo, è un nuovo inizio, una nuova “età dei diritti”, per usare la celebre definizione di Norberto Bobbio. È venuto il tempo di cominciare a maturare una coscienza giuridica, che ci permetta di proteggere l’individuo nel divenire di un eco-sistema che sarà segnato dalla prepotente evoluzione della tecno-scienza».

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