Vincenzo Pipino: il predatore onesto di Venezia ora è una star
Contratto americano da 100 mila dollari: «Rubavo a quelli più ladri di me, in un anno feci due razzie nella casa di Peggy Guggenheim. Da Benetton no, era povero»

«Xe tuta colpa tua», si giustifica «il ladro più onesto d’Italia». La prima volta che lo incontrai, nel 2010, dovetti ospitarlo nella casa editrice Marsilio alla Marittima di Venezia. Ora che l’ho fatto diventare una star, mi dà appuntamento nell’Hilton Molino Stucky alla Giudecca. È l’isola su cui abita da sempre: «È un privilegio vivere in questa città. Se mi toccasse traslocare altrove, morirei». Esibisce al polso un Rolex Daytona in oro bianco da 42.000 euro, «fregato onestamente a uno svizzero danaroso».
Noblesse oblige. A 81 anni suonati Vincenzo Pipino, detto Encio, è diventato un personaggio planetario. Joshua Davis di Epic true stories, casa di produzione con sede a New York, gli ha fatto firmare un «accordo di opzione sui diritti di vita» da 100.000 dollari. Alberto Negrin, il regista di Paolo Borsellino, Perlasca e Io il Duce, lo ha immortalato in un documentario per la Radiotelevisione svizzera. E lui si è raccontato da solo in due libri, Rubare ai ricchi non è peccato e Memorie di un ladro filosofo, editi da Milieu.
Lo hanno ribattezzato in molti altri modi: ladro gentiluomo, ladro scrittore, ladro internazionale, ladro filosofo, Fantomas della laguna, Lupin, uomo d’oro, sindacalista delle carceri. «Ho sempre rubato a ladri che rubavano più di me. Non esiste al mondo ricchezza che non venga da un latrocinio. L’ultimo colpo fu ai danni di una riccona che teneva 900.000 euro in un borsone. Se n’è vantata in giro: “Chissenefrega! Spiccioli”. Non ha presentato denuncia. E come poteva? Erano soldi in nero, mai dichiarati all’Agenzia delle entrate».
Aveva appena 6 anni, Vincenzo Pipino, quando fu classificato come delinquente. Il fattaccio accadde nelle elementari Armando Diaz, durante la ricreazione.
«Noi, figli dei poveri, denutriti, eravamo in ultima fila, perché il maestro riservava i primi banchi ai figli dei sióri. Il capoclasse, rampollo di un farmacista del sestiere Castello, veniva in aula con il cestino della merenda colmo d’ogni bendidio. Quel giorno addentò per ultima una mela. Io avevo un buco nello stomaco grande così. Gli chiesi: vànzeme almeno el rosegòto, avanzami il torsolo. “Toh, se lo vuoi, raccoglilo”, rispose con disprezzo, e lo gettò sul pavimento. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Finendo a terra, si morsicò la lingua. Il sangue gli zampillava dalla bocca. Mi espulsero a vita dalle scuole di ogni ordine e grado».
In realtà la volevano rinchiudere nell’Istituto medico psicopedagogico.
«Mia madre Cesira, per sottrarmi a quella sorte, mi mandò in un luogo ancora più infelice: un’impresa di pompe funebri nei pressi di Santa Maria Formosa. A 8 anni passavo le giornate tra morti da vestire e bare da spolverare».
Poi garzone di pasticceria.
«Dal banco il titolare mi ordinò: “Fischia!”. Non ci riuscii: avevo in bocca un bignè. Dovevo pur sfamarmi. Mi massacrò di botte e mi cacciò».
Poi apprendista fotografo.
«Anche. Infine la strada diventò la mia università: 3.000 furti tra musei e abitazioni private; 50 gioiellerie svaligiate; una quindicina di arresti; 300 denunce, una ventina di condanne; un’evasione da un penitenziario svizzero del Cantone di Vaud».
Quanti anni di galera?
«Presi 25, scontati 17. Diciamo 18 anni più altri 8 da innocente, 4 passati dentro. (Ha perso il conto). Ho imparato a leggere e scrivere in cella. Ho avuto come compagni di detenzione gli Strangio, i Graviano, Francis Turatello, Michele Zaza, Valentino Gionta e Vincenzo Scarantino, il pentito della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, Toni Negri, il professore, rimasto mio amico fino alla morte, e Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse».
Quelli che non incontrava dentro, li frequentava fuori.
«Enrico De Pedis, detto Renatino, capo della banda della Magliana, che il Vaticano fece seppellire nella chiesa di via della Conciliazione: secondo l’amante, Sabrina Minardi, era coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi. E il suo braccio destro Danilo Abbrucciati. E Antonio Spavone, detto ’O Malommo, capo della camorra prima di Raffaele Cutolo. Ma non ho mai posseduto o usato armi, né torto un capello a qualcuno».
Avrà pur conosciuto qualcuno più onesto di lei.
«Mia moglie Carla. Siamo sposati da 60 anni. Cominciò a lavorare a Murano appena sedicenne. Montò un lampadario per la principessa Grace di Monaco. È stata cameriera negli alberghi di lusso, dal Nazionale al Cipriani. Carla non poteva avere figli. Però abbiamo cresciuto tanti nipoti perbene: uno vicedirettore di banca, uno laureato in scienze politiche, una proprietaria di un’agenzia di viaggi».
Come si diventa ladri?
«Per necessità. Strada facendo si trasforma in virtù. Una volta andai a ripulire la casa di una nobildonna veronese, Bianca Bevilacqua. Nella cassaforte trovai un plico con scritto sopra: “Da aprire solo dopo la mia morte”. Lo lasciai intatto. Da ciò la contessa dedusse che fossi un ladro gentiluomo e fece pubblicare un’inserzione a pagamento su tutti i giornali d’Italia, offrendomi 15 milioni di lire in cambio della refurtiva. Purtroppo i gioielli erano già stati venduti, altrimenti glieli avrei restituiti. Due grossi orecchini con diamanti e smeraldi li indossa una famosissima attrice italiana. Se facessi il suo nome, verresti arrestato con me, perché si tratta di un monumento nazionale».
La prima cosa che rubò?
«Un bidone del latte da 50 litri. Non era facile, a 8 anni, farlo rotolare fino in calle Malatin. Ad attendermi c’erano tutte le mamme, compresa la mia. Da quel giorno assicurai il rifornimento gratuito ai poveri del sestiere. Finché quattro poliziotti mi portarono in questura e mi bastonarono. Ormai ero segnato a vita».
Non poteva cambiare vita?
«Che cosa fa il procione? Si gratta e ruba. Lo arrestano il procione? No. All’Arsenale vidi la cambusa aperta: mi caricai un sacco di zucchero nella gerla, saranno stati 30 chili. La guerra era finita da poco, lo zucchero si vendeva a grammi, come la droga. “Semo sióri!”, esclamò mia mamma, una veneziana molto pratica. Alla sera rincasò mio padre Antonio, pugliese tutto d’un pezzo di San Nicandro Garganico. Mi chiese: “Chi te l’ha dato?”. L’ho trovato, risposi. Sul sacco c’era stampigliato “Marina militare”, ma io non sapevo né leggere né scrivere. “Adesso lo riporti dove l’hai rubato”, mi ordinò. Mia nonna Nene si sedette sul sacco: “Eh no, el zùcaro nol va fora de qua!”».
A che età mise a segno il primo colpo grosso?
«A 14 anni. D’estate m’ infilavo sotto i capanni del Lido e bucavo con il trapano le assi del pavimento per sbirciare Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Marisa Allasio che si spogliavano. Uscivo da lì sotto alle 8 di sera con gli occhi fuori dalle orbite. Mi venne un’idea: svitare le assi in modo da poterle sollevare mentre i bagnanti erano stesi al sole. Dai portafogli rigonfi portavo via solo un po’ di soldi, per comprarmi i primi jeans da Vittadello. Un’estate adocchio un americano che esce dall’hotel Des Bains con la famiglia. Aveva un rotolone di dollari nel taschino della camicia. Attacco bottone con John, il figlio scemo del turista, lo invito a giocare a calcio, dopo un po’ un tiro finisce nel capanno. Con la scusa di recuperare il pallone, mi fiondo dentro, rubo dalla camicia i dollari, m’infilo il malloppo nelle mutande, poi fingo un attacco di cacarella e me la svigno. Saranno stati 200.000 euro di oggi. Il capo della Mobile, Angelo Sciuto, sospettava da tempo che il predone del Lido fossi io. Mi ritrovai nel carcere minorile delle Zattere. Vennero tre poliziotti a interrogarmi. Uno di loro spegneva il sigaro sul mio corpo, ho ancora i segni delle bruciature su pancia e inguine, vuoi vederli?».
La dispenso.
«Urlavo per il dolore, ma non confessavo. Non volevo arrecare questo dispiacere a mio padre. Sette mesi di galera».
E una volta scarcerato?
«Una trentina di colpi in giro per l’Europa. La banda del buco l’ho inventata io, altro che I soliti ignoti di Mario Monicelli. Sceglievo un appartamento momentaneamente disabitato sopra una gioielleria, si toglievano le mattonelle e si aspettava la pausa pranzo, quando i preziosi non vengono chiusi in cassaforte. Con questa tecnica demmo l’assalto all’oreficeria Poncini in boulevard Saint Germain, a Parigi, passando attraverso l’atelier di Pierre Cardin».
Era più semplice svaligiare la casa dello stilista Cardin in calle dei Muti o Baglioni, vicino al ponte di Rialto.
«Nel campo della moda visitai l’abitazione di Luciano Benetton, a Ponzano Veneto, ma non trovai niente da portar via, perché non era ancora famoso. Le dimore patrizie sul Canal Grande le ho visitate tutte, dai Brandolini d’Adda ai Persico, fino ai discendenti di Azzo degli Azzoni. I Donà delle Rose li gò rovinà».
Con quale criterio sceglieva gli obiettivi?
«Che domande! L’assenza del proprietario. Un giorno del 1998 in Bacino San Marco vedo una casa con le imposte chiuse. Sui campanelli tre cognomi: Collalto-Castillo, Giustinian, Donà delle Rose. Il primo mi è nuovo. Corro alla Biblioteca Marciana a far ricerche e trovo un indizio: contessa Cecilia Collalto Giustinian in Falck. Acciaierie Falck uguale Alberto Falck, collezione Falck uguale Giovanni Antonio Canal, Canaletto uguale Fontegheto de la farina. La tela dei miei sogni».
Perché?
«Raffigura il piccolo magazzino che sorgeva sul molo di San Marco. In primo piano si vede un ponte che fu distrutto da quelle carogne degli austriaci. Sullo sfondo la Punta della Dogana. Decido di andarmelo a prendere. Penetro nell’appartamento e mi ritrovo in una pinacoteca: Masaccio, Tintoretto, Mantegna, Sebastiano del Piombo, Simone Martini. Bisognava fare una cernita, rispettare la storia. Mentre son lì che ragiono con i miei complici, alle 3 di notte arriva Alberto Falck. Oh, casso! Aspetto che si ritiri nell’ala più lontana del palazzo. Guardo dal buco della serratura e lo vedo seduto davanti alla ribalta di un secrétaire del Settecento, intento a scrivere con una Montblanc. Via libera. Un colpo da 20 miliardi di lire».
Non è assurdo rubare una tela notificata, valutata allora 4 miliardi e giudicata invendibile dai critici d’arte?
«Sì, ma ha mai provato a tenersi un Canaletto in casa per un mese? El sorideva. Xera parfìn più lucido. Un cuore che pulsava. Qualche tempo dopo telefonai all’ufficio del re dell’acciaio: sono quello che ha rubato il Canaletto a Venezia, vorrei parlare con Alberto Falck. Alla centralinista tremava la voce: “Rimanga in linea”. Me lo passò. “Che cosa vuole?”, mi disse con tono seccato. So che lei ha fatto molte opere di bene, l’ho vista insieme con papa Wojtyla nella foto in cornice: perché non dona il Fontegheto alla città di Venezia? “Il dipinto è mio e ne faccio ciò che voglio”, rispose. A dire il vero adesso il dipinto è mio e potrei anche ridurlo in pezzettini, replicai. Tacque per un istante: “Certo, potrebbe distruggerlo. Ma da quel poco che ho potuto capire di lei, sono sicuro che non lo farà”. E riattaccò. Glielo feci ritrovare a Roma e finii in galera per sette mesi. Il capo della Mobile, Vittorio Rizzi, e il sostituto procuratore, Maria Bianca Cotronei, ebbero la loro bella targa. A me Falck inviò alcune casse di vini dei conti Collalto. Ogni tanto continuo a sentire il Fontegheto che mi chiama. Mi dice: “Portami via da questo oblio”».
Che senso ha assaltare per due volte nel giro di dieci mesi la Peggy Guggenheim collection sul Canal Grande, come fece lei?
«Ma alora no’ ti gà capìo un casso! Era un gioco delle parti che giovava a tutti. I funzionari di polizia recuperavano la refurtiva, ricevevano encomi solenni e facevano carriera. Io mi prendevo un piccolo contributo sulla riconsegna. Il codice non scritto era: mai portar via la roba da Venezia, mai arrecare danni alle opere d’arte. E poi c’erano anche furti su commissione che non potevi rifiutarti di eseguire».
Sia più chiaro.
«Nel 1991 mi avvicina un luogotenente di Felice Maniero: “Il presidente vuole vederti”. Ma ci elo ’sto presidente? El Còtola? Io il boss della mala del Brenta lo chiamavo così, perché da piccolo stava sempre attaccato alla sottana della madre. Il suo scherano mi spiega che Maniero ha bisogno di rubare un pezzo importante a Ca’ Rezzonico per poi fare uno scambio con lo Stato e ottenere il rilascio di un cugino finito in chèba (gabbia, carcere, ndr). Potevo dirgli di no? Però ho preferito scegliere il Palazzo Ducale. Una sfida con me stesso, visto che non aveva mai subìto furti. Nella Sala dei Censori ho notato una Madonna col Bambino del XV secolo, un olio su tavola uscito dalla bottega di Alvise Vivarini. Mi sono nascosto nelle prigioni. Casa mia. E durante la notte ho fatto all’inverso il percorso del detenuto Giacomo Casanova: dai Piombi al Palazzo Ducale attraverso il Ponte dei Sospiri. Sono uscito per calle degli Albanesi con la Madonna. L’ho consegnata a Maniero senza averne in cambio neppure una lira. Pretesi che la restituisse intatta. Ma ancora non bastava a far scarcerare il cugino arrestato per traffico di droga: in quello stesso anno El Còtola fece rubare il mento di Sant’Antonio custodito nella basilica di Padova».
Lei «visitò» a modo suo anche il museo Correr.
«Nel 1992 un certo Valerio mi aveva offerto l’equivalente di 200 milioni di lire in marchi per portar via tutti i quadri di Giovanni Bellini. Io pensavo che si trattasse del solito furto con richiesta di riscatto. Ma durante il colpo chiesi: per chi stiamo lavorando? Quello mi rispose: “Si chiama Arkan. L’ho conosciuto anni fa in galera. Oggi è presidente di una squadra di calcio a Belgrado”. Arkan? Serbia? Ma certo! Era il soprannome di Zeljko Raznatovic, inseguito dall’Onu per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Figurarsi se un macellaio del genere avrebbe riconsegnato i Bellini a Venezia! Scesi, entrai in una cabina e chiamai il 113».
Chiesi a Luciano Lutring, «il solista del mitra»: che cos’è per lei l’onestà? Rispose: «Eh, l’onestà! Una roba astratta, non la vedi, nemmeno nelle persone cosiddette perbene. Rapinavamo 100 milioni e la radio parlava di 300. Capito i signori banchieri? Truffavano le assicurazioni».
«Tutto quello che dichiara il derubato diventa ipso facto fonte di verità. Ma non è mica così, sa? Durante un processo dal quale uscii assolto chiesi a una mia vittima, una discendente del doge Francesco Foscari: ma lei il quadro che le ho rubato dove l’ha preso? Cominciò a farfugliare».
Mi ricorda Il Gatto che s’arrampica sui tetti in Caccia al ladro di Alfred Hitchcock.
«Cary Grant l’ho conosciuto di persona. Una sera d’estate una signora si svegliò di soprassalto sentendo i nostri passi sulle tegole e s’affacciò da un abbaino: “Mariavergine, ci sio voialtri?”. Non si preoccupi, signora, siamo ladri. “Ah, benón. Bona note”».
Solidarietà fra veneziani.
«Su un ponte c’era un povero mutilato, privo di un braccio, che chiedeva l’elemosina. Mentre stavo per lasciargli un obolo, passa una carampana in pelliccia, lo squadra e gli dice: “Ma va’ a lavorare!”. L’ho seguita per tutta Venezia, tra calli e campielli, fino a quando la vecchiaccia non è entrata in un portone. Per un mese, sera dopo sera, sono andato lì a farle la posta. Al momento buono sono entrato e ho razziato tutto. Tornato a casa mia, ho scoperto che tra la refurtiva c’era l’urna contenente le ceneri del marito. Vede, io ho sempre trovato il modo di restituire oggetti affettivi rubati per sbaglio, tipo la fede nuziale o la catenina d’oro di un figlio defunto. Ma il liofilizzato di quel poveretto mi stringeva il cuore. Sono andato su un ponte del Canal Grande, ho aperto il sacchetto delle ceneri e gli ho detto: va’, caro, starai meglio libero in acqua che accanto a quella megera di tua moglie».
Non s’è fermato davanti a nulla?
«Non ho mai portato via orologi e oggetti preziosi in riparazione, per non togliere all’orefice anche il lavoro. E non ho mai rubato capitelli o saccheggiato chiese. Da bambino andavo all’oratorio della parrocchia di San Francesco della Vigna. A maggio il prete chiudeva le porte del tempio per non farci scappare e dopo il fioretto serale ci dava il pane imbottito con la marmellata regalatagli dai soldati americani, quella solida che si poteva affettare. Alla fine qualcosa, dentro, ti resta. La possibilità di finire all’inferno, per esempio».
Si ritiene davvero un ladro onesto?
«Ti giuro che se avessi messo da parte l’1 per cento di ciò che ho rubato, sarei milionario. Ma se avessi di ritorno l’1 per cento di quello che ho donato ai poveri, sarei miliardario».
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