Buon compleanno, Ale: i 50 anni di Del Piero
Il 9 novembre Del Piero compie 50 anni. La voglia di giocare già a quattro anni, gli esordi, il salto, il San Vendemiano, il Padova e poi il volo con la sua Juve.
Il racconto di chi l’ha visto sbocciare già da bambino
Delicato. Era un netto passo avanti, quasi una carezza. Per quelli prima era gracile, magrolino, fisicamente inadeguato. Vittorio Scantamburlo, talent scout del Padova, scrisse nella sua relazione che quel ragazzino di dieci anni del San Vendemiano era «fortissimo, da prendere subito», tre stelle su tre, come in una guida Michelin del talento, seppur «fisicamente delicato».
E il Padova fu il primo a crederci davvero. Il resto, come si dice?, è storia, romanzo, tutto. Alessandro Del Piero il 9 novembre compie cinquant’anni. Tanti auguri, campione, e vogliono farteli anche quelli che per primi si sono accorti della tua stella.
Toni Franceschet dice di non contare gli anni che ha passato da presidente del San Vendemiano. «Quaranta? Sì, forse qualcuno in più». La sera in cui ha firmato il contratto per vendere Del Piero al Padova, ci racconta, il titolare del ristorante in cui andò in scena l’ultima puntata di quella trattativa estenuante gli lasciò le chiavi sul tavolo: quando avete finito, chiudete voi.
Non tanto per i soldi incassati (35 milioni di lire): la soddisfazione era aver convinto davvero qualcuno a puntare sul neanche quattordicenne Alessandro.
Prima, c’era sempre quel «però»: lo avevano messo il Conegliano, il Montebelluna, il Bologna, l’Atalanta. «Bravissimo, però troppo gracile». «Tecnica eccellente, però fisicamente inadeguato».
Anche il Padova quel dubbio lo ebbe, ma poi decise che quel ragazzino era sì leggero, però la bilancia del talento aveva cose più importanti da dire. «Lo portai di persona, ai provini con il Padova, assieme a suo papà – racconta Franceschet – e una volta vidi che in una partita lo facevano giocare terzino. Mi avvicinai a uno dei loro dirigenti e gli dissi: guardate che quello non è il suo ruolo, Alessandro è un attaccante. Sappiamo bene cosa sa fare davanti, mi rispose, ma dobbiamo vedere se riesce a tenere fisicamente l’uomo».
Lo teneva, eccome se lo teneva. Anche Giuseppe Mazzer, come Franceschet, ha superato gli ottanta ma deve avere lo stesso segreto per dimostrarne una decina di meno.
E quando parla di Alessandro, sullo sfondo dello stadio di San Vendemiano dove lo incontriamo («il suo primo campo era questo, solo non c’erano ancora le tribune»), gli si ringiovanisce anche lo sguardo: ne è stato il primo allenatore, assieme al compianto Umberto Prestia.
«Una volta – racconta – giocammo una partita contro una selezione di ragazzi forti e di uno o due anni più grandi dei nostri del ’74: il primo tempo fu di grande sofferenza, all’intervallo Ale mi chiese: mister, nel secondo tempo posso giocare libero, dietro? Lo accontentai: non passarono più».
La testa fa la differenza. Banale, ovvio: non per questo meno vero. «Suo fratello Stefano, di nove anni più grande, non era meno bravo, anzi – racconta Franceschet – ma Alessandro era quello che non mollava mai». E poi «era generoso, altruista, in campo con gli assist e fuori, si metteva sullo stesso piano degli altri», ricorda Mazzer.
Anche Ledio Cuzzuol, storico dirigente del San Vendemiano, ha un aneddoto, quasi un test empirico: «Ricordo un giorno quando Alessandro e un gruppetto di suoi compagni stavano giocando e scherzando dopo un allenamento, a un certo punto hanno fatto cadere una bottiglia di vetro che si è rotta.
Non ho fatto in tempo ad andare a dirgli di ripulire che Alessandro, spontaneamente e in silenzio, è andato a prendere scopa e paletta e ha sistemato tutto. Era già così maturo, l’ho visto crescere. Ricordo che aveva un mucchio di capelli, dovevo prenderlo in braccio per alzarlo e avvicinarlo ai phon fissati in alto per farglieli asciugare».
La Juve, l’esordio, i calzettoni coi laccetti, quel gol alla Fiorentina, la Champions, Tokyo, l’infortunio terribile, il cinque maggio.
La faccia a Cufrè dopo lo schiaffo preso, Berlino, Rimini, la linguaccia, la standing ovation al Bernabeu, il contratto in bianco, l’ultima partita: ciascuno del campione Del Piero, del personaggio pubblico, ha una propria galleria di ricordi.
Chi lo ha visto crescere ha anche quelli privati, di ricordi, bellissimi, toccanti.
«Quando suo fratello aveva 13 anni e giocava qui, sua mamma portava Alessandro sul seggiolino davanti alla bicicletta, aveva quattro anni. Me lo vedo ancora, lì vicino all’ingresso del campo – indica Mazzer con la testa – che sgambetta perché vuole scendere e mi chiede: quando potrò giocare anch’io?».
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