La mamma di Ale Del Piero: «Ora sì posso dirlo: è un bravo ragazzo»

Bruna Furlan: «Non abbiamo mai esagerato con i complimenti, neanche quando vinceva tutto. Ma adesso va bene. Il suo regalo? Quando viene a trovarmi gli preparo un bel pasticcio»

Fabio Poloni
La mamma Bruna Furlan sorridente accanto a suo figlio Alessandro Del Piero
La mamma Bruna Furlan sorridente accanto a suo figlio Alessandro Del Piero

«Scriva poco». Lo chiede sottovoce, mentre mi saluta dopo questa intervista. Non parla mai, la signora Bruna Furlan. Questa, però, è un’occasione speciale. Ha accettato, dopo lungo corteggiamento giornalistico, di dimenticare – o di dissimulare, con grande eleganza – il suo pudore, la sua riservatezza. Domani il suo bambino compie cinquant’anni.

«Vado male a dirlo, ma è proprio un bravo figlio. Lui e anche suo fratello eh. Non abbiamo mai esagerato con i complimenti, neanche quando vinceva tutto. Non ho mai detto: mio figlio è bravo. Ma adesso va bene, posso farlo».

Sul tavolo della sala c’è un sottopentola di vimini intrecciato, forse li danno in dotazione con le nonne (la foto incorniciata, gigante, dei nipoti è meravigliosa). E pensare che un giorno su quello stesso tavolo c’era la coppa del mondo, portatagli a casa da Alessandro dopo Berlino 2006. «Ma no, in realtà l’aveva messa nel tavolo giù in taverna». Ah beh, allora come non detto.

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La redazione
Ale Del Piero sul tetto del mondo con la Nazionale a Berlino nel 2006

Signora Bruna, che regalo farà al suo Ale? A proposito, qui non lo chiamiamo Alex, vero?

«No no, io l’ho sempre chiamato Alessandro, solo qualche volta Ale. Per il regalo non ho niente di particolare in mente, non gli ho mai fatto grandi regali: non posso mica prendergli dei vestiti, se li compra da solo. Ecco, quando viene a trovarmi gli preparo un bel pasticcio».

È il suo piatto preferito?

«Sì, semplice, fatto da me. Ah, anche il tiramisù, in quello sono brava».

È goloso? Almeno adesso non deve più trattenersi come quando giocava.

«Eh ma i problemi di linea ce li ha più adesso! Ne mangerà un po’, dai, non mezza pirofila. Non serve esagerare».

Riservatezza, senso della misura: quanto c’è dell’educazione di voi genitori nell’Alessandro diventato campione?

«È andato via da casa da giovane, a neanche 14 anni, a Padova. Ci ha messo tanto del suo. Ora penso che sono stata matta, a mandarlo via a quell’età».

Forse perché sapeva che Alessandro aveva già la testa sulle spalle.

«Sì, ma i timori ci sono sempre, non sai le compagnie che trova, qualcosa può sempre andare storto... Ma lui è stato sempre bravo, anche nascosto nella vita privata, ha fatto bene. Non mi piace che si parli tanto di sé. Ha sopportato anche tante critiche, come quando ha avuto l’infortunio, non è stata una bazzecola, ci è voluto un anno per riprendersi. Poi è andata bene, ma poteva anche finire lì, la sua carriera».

Lo avete temuto?

«Noi sì. Lui ha stretto i denti ed è sempre stato positivo. Noi abbiamo avuto paura. Era giovane, è successo il giorno prima del suo ventiquattresimo compleanno, era l’8 novembre 1998. Quello è stato il momento più duro in assoluto, ero lì allo stadio Friuli di Udine, l’ho sentito urlare: credevo di morire».

Quanto spesso lo vede o lo sente, adesso?

«Mi chiama di frequente, mi vuole tanto bene. Non viene spesso quanto vorrebbe, ma è molto legato alla sua terra: ora vive a Madrid, spesso torna a Torino perché suo figlio adesso gioca a Empoli, prima stava a Los Angeles. Ha molti impegni, anche i figli lo sono, li porta a scuola lui».

Che papà è?

«Il papà che tutti dovrebbero avere. Loro lo amano tanto».

Cerca di imitare il suo, di papà? (Gino Del Piero è scomparso nel 2001)

«Certamente, suo padre è stato sempre molto dolce, se doveva fare un’osservazione non lo faceva mai con violenza, con aggressività. Con le cattive non si fa tanta strada. Ero io quella più dura: se non fai questo o quello, non vai ad allenamento».

Questo o quello cosa?

«Non mi ascolti, o non studi. Ho insistito tanto perché a Padova si diplomasse, ci tenevo molto. Se poi si fa male, pensavo, cosa facciamo?

Torniamo alle doti di famiglia, come tenere i piedi per terra.

«Sì, non bisogna mai alzare la cresta, perché poi si abbassa. Dalle stelle alle stalle, si dice».

Ma è vero che lei voleva che Alessandro stesse in porta, se proprio doveva giocare a calcio, perché era gracilino e aveva paura che si facesse male?

«Vero, invece lui si metteva in porta solo all’inizio, qua nel campetto dietro casa, quando lo vedevo. Poi te lo trovavi in giro a correre e a fare gol».

In una sua foto da piccolissimo ha in mano un pallone: è in bianco e nero, ma Alessandro racconta di ricordarsi quel pallone giallo.

«Sì, di spugna, me lo ricordo ancora anch’io. Se era di cuoio rompeva tutto, allora lo lasciavo giocare con quello».

Mai fatto danni in casa?

«Ha rotto un vaso, lo abbiamo incollato. E suo fratello Stefano una finestra».

E papà non si arrabbiava?

«Ma no, ha cambiato il vetro e basta».

Ale è juventino sin da bambino, passione ereditata proprio dal papà?

«Sì, lui era molto tifoso, io prima di conoscerlo no. Ma qui attorno siamo quasi tutti juventini. E lui è finito proprio lì».

Ora anche la sua nipotina Dorotea è con le ragazze della Juve.

«Non pensavo proprio che avrebbe giocato a calcio, ma se a lei piace, sono contenta».

Che rapporto ha con i suoi nipoti?

«Bellissimo, sono gentili, bravi, ci sentiamo e facciamo le videochiamate, mi mandano anche messaggi».

Finiamo, o quasi, con tre parole per descrivere Alessandro.

«Intelligente, intanto. Dribblava sempre anche i giornalisti! E anche buono».

Sono due.

«Beh, ha anche i suoi difetti eh».

Ce ne dica uno allora.

«Forse pensava troppo al calcio, ma ha preso il diploma e mi ha fatto contenta. Posso comunque dire che sono molto orgogliosa di lui, per tutto».

Andava allo stadio a vedere le partite?

«Sì, in coppa dei campioni quasi sempre, anche ai mondiali».

Anche l’ultima con la Juve nel 2012?

«C’ero, ho sofferto tanto, ho pianto. Ma per lui si è aperta una nuova vita». —

 

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