Maurizio, l’altro Panatta: «A Treviso insegno tennis a 150 bambini. Sfruttiamo il boom da effetto Sinner per costruire qualcosa di grande»

Il cugino di Adriano si racconta: il cognome ingombrante («aiuta, ma non basta»), l’educazione dei ragazzi («ecco cosa sbagliano i genitori»), l’allarme per «i troppi maestri improvvisati, che fanno danni»

Fabio Poloni
Maurizio e Adriano Panatta, cugini nel segno del tennis
Maurizio e Adriano Panatta, cugini nel segno del tennis

Maestro, come sta? «Bene, gioco a tennis!». Maurizio Panatta porta in campo con disinvoltura due cose: una è l’età (classe 1958): l’altra il cognome, gonfiato nell’aura da suo cugino Adriano, monumento nazionale di questo sport. I bambini «messi sotto una campana di vetro dai genitori», il momento d’oro del tennis «da sfruttare per investire, non per arraffare i soldi e basta», l’importanza di maestri abilitati e riconosciuti «perché in tanti ora si buttano senza avere i titoli, e fanno danni», il rapporto con il cugino “ingombrante”: parla di tutto, Maurizio, che oggi gestisce la scuola tennis dell’Adriano Panatta Racquet Club di Treviso. In pieno boom da effetto-Sinner, senza nulla togliere alle altre stelle del tennis italiano in campo maschile e femminile.

Maurizio Panatta in campo per una lezione di tennis
Maurizio Panatta in campo per una lezione di tennis

Maestro, partiamo da qui: quanto vale l’effetto Sinner nell’attirare tennisti o aspiranti tali?

«Quest’anno abbiamo circa 150 bambini che fanno corsi di tennis qui con noi, poco più di un anno fa erano 80. Gli adulti sono quasi un centinaio, praticamente raddoppiati anche loro dai 45/50 di un anno fa».

Ecco, i bambini e i ragazzi, tema caldo anche dal punto di vista sociale.

«Nel tennis ci sono delle regole ferree, da lì non scappi: non puoi fare il furbo, non puoi sgambettare l’avversario: per i bambini è molto positivo, in questo momento storico dove regole ce ne sono poche. Il tennis aiuta la crescita, ogni palla che vai a colpire è diversa e devi trovare una soluzione, ti abitui a lavorare con la testa e a prenderti delle responsabilità».

Lei da quanto fa il maestro? E come ha visto cambiare i bambini, diciamo negli ultimi dieci anni?

«Faccio il maestro da 46 anni. Oggi i bambini, e in questo territorio in particolare, sono sotto una campana di vetro, e sono i genitori a metterceli. “Oddio, nel tragitto tra spogliatoi e campo prendono freddo”, cose del genere, mentre magari in altri sport all’aperto giocano sotto la pioggia e si divertono pure. Il tennis è stato nel passato uno sport d’élite, ora è più alla portata di tutti. Adesso abbiamo 150 bambini e sono tutti educatissimi, rispettano le regole, fanno gruppo con gli altri, cosa da non sottovalutare in questo momento storico in cui troppo spesso i bambini si isolano, sono sempre lì col telefonino in mano. Qui facciamo giocare tutti anche di sabato, non solo quelli più bravi, gli agonisti, che fanno tornei».

Che ruolo ha il maestro di tennis, in questo percorso di crescita che non è solo tecnica? Nel percorso di formazione di un maestro ci sono anche elementi di pedagogia?

«Certo, il maestro di tennis è un educatore, quando si frequenta la scuola maestri dell’istituto Lombardi dove si formano tutti i tecnici della Federazione si studiano anche pedagogia e psicologia applicate allo sport: il maestro di tennis deve essere un educatore. E poi sta a lui continuare a crescere, a formarsi, con corsi di specializzazione: nel tennis non si smette mai di imparare, da tutti i punti di vista, non solo quello tecnico. Ma in giro ci sono troppi finti maestri, gente improvvisata».

In che senso?

«Nel senso che ora il tennis vive un boom e molti ne approfittano per fare i maestri pur non avendone i titoli. Per esempio, il gradino iniziale della formazione ti porta a essere istruttore di primo grado, che può insegnare solamente minitennis a bambini sotto i dieci anni, e accompagnato in campo da un maestro. Ecco, adesso chi controlla che le regole vengano applicate? Che chi non ha le competenze faccia ciò che non potrebbe? È come se hai mal di denti e vai dal dentista: ti fidi se le mani in bocca te le mette un odontotecnico?».

Cosa si augura per il tennis italiano, in questo momento d’oro?

«Che riusciamo a sfruttarlo per crescere, per investire nella formazione, nelle strutture. Che non sia un “prendi i soldi e scappa”. È già successo a fine anni Settanta quando c’è stato un altro boom, trascinato da un certo Adriano Panatta».

 

 

La sua storia

Romano di nascita ma veneto d’adozione da una vita (ha iniziato a lavorare come maestro a 21 anni, a Padova, dov’era stato mandato per il servizio militare, e da allora praticamente è qui quasi ininterrottamente), Maurizio Panatta oggi gestisce la scuola tennis dell’Adriano Panatta Racquet Club di Treviso.

Era il 1979, racconta Maurizio, quando iniziò a lavorare come maestro al Tennis Club Padova: ci rimase per 12 anni, per poi trasferirsi di pochi chilometri all’Accademia Tennis Plebiscito, sempre di Padova, per altri otto anni, poi ancora sette a Cittadella. Il suo peregrinare gli ha fatto toccare la Marca per un anno al Tc Treviso (ora Eurotennis) prima di andare a Fano. Il destino ha puntato di nuovo il dito su Treviso per due motivi: il primo è che ormai era di casa, in Veneto; il secondo è che Adriano si è sposato e trasferito qui, «e quando c’è stato il bando per rilevare l’ex Tc Zambon, ci siamo parlati e ci siamo guardati negli occhi: ci abbiamo messo poco a decidere», racconta oggi Maurizio.

Con Adriano il rapporto è stato stretto ma non troppo, nel senso che otto anni di differenza d’età (Adriano classe 1950, Maurizio 1958) li hanno portati a traiettorie diverse, anche in campo. «Il papà di Adriano, mio zio, era il manutentore del circolo Parioli, io giocavo in un altro. Quando io ho iniziato a diventare forte, Adriano era già in giro per il mondo: mi sono incrociato in campo più con suo fratello, Claudio» (classe 1960, ndr), racconta Maurizio.

Da ragazzino ha fatto tanti sport, calcio e basket soprattutto, oltre ovviamente al tennis, che poi ha scelto: giocatore semiprofessionista, è arrivato fino alla classifica B2 (oggi sarebbe l’equivalente di un 2.1) ma non ha trovato il varco giusto per entrare nel giro dei top. Lo ha trovato, invece, come maestro e allenatore: da subito, a Padova, ha fatto crescere un gruppo di tennisti, cinque ragazzi e tre ragazze, «che sono tutti diventati dei B1 e B2».

 

Adriano e Maurizio Panatta in una lezione-esibizione in piazza dei Signori a Treviso
Adriano e Maurizio Panatta in una lezione-esibizione in piazza dei Signori a Treviso

Certo, chiamarsi Panatta deve aver aperto diverse porte, nel mondo del tennis, no? «Sicuro – ammette Maurizio – se sei il figlio di Maradona, qualcuno che ti fa giocare a calcio lo trovi. Poi, però, se non sei bravo, non vai da nessuna parte. La stessa cosa è successa con me, nel tennis: mi chiamo Panatta, sì, ma se dopo non so insegnare o non so giocare a tennis, il cognome non serve a niente».

Bilancio di questi primi tre anni, a Treviso? «Molto positivo, l’impianto è sempre pieno, dai campi da tennis a quelli di padel passando per le palestre, e la piscina d’estate. È un centro d’aggregazione, dove puoi venire anche soltanto per berti un caffè, stare con gli amici, fare due parole e passare due ore in serenità. Non c’è una quota sociale, qua dentro può venire chiunque a giocare un’ora. Anche per quanto riguarda la scuola tennis: abbiamo voluto impostarne una di eccellenza, ma non esclusiva: restiamo un centro sportivo aperto a tutti, più che un circolo. Il tennis è uno sport che puoi fare per tutta la vita, ti basta un compagno e un’ora libera». E puoi anche avere la passione di insegnarlo, per tutta la vita.

 

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