Nico Facciolo, un Rambo a Nord Est
La carriera del portiere giramondo diventa racconto: da Casale di Scodosia a Trieste passando per Monselice dove mister Edy Reja convinse il padre a fargli fare il professionista
Nico Facciolo ha raccontato se stesso in un libro dal titolo significativo: “Mi chiamavano Rambo”. Una carriera da portiere, partendo con il difendere i pali del Monselice e chiudendo con la Triestina, dopo aver vestito le maglie di Pordenone, Reggiana, Arezzo e di nuovo Reggiana, seguita da quella di preparatore degli estremi difensori vissuta con Giorgione, Trento, Padova, Cagliari e Napoli, ultima tappa ancora nel capoluogo sardo, dove ha conosciuto la seconda moglie Barbara.
Oggi ha 62 anni ed è in... pensione. Così ha deciso di mettere nero su bianco i suoi ricordi insieme ad Antonello Cattani. I ricordi di un grande professionista, bloccato alla fine da grossi problemi alle ginocchia.
Nico, innanzitutto perché quel soprannome e chi gliel'ha affibiato?
«La paternità spetta ai giornalisti. Per il ruolo che ho interpretato, mi hanno chiamato Rambo già a Monselice, quando ero ragazzo. A quei tempi era uscito nelle sale cinematografiche il primo Rambo, poi hanno fatto il secondo Rambo, e mi hanno etichettato come tale pure al mio esordio in C/1 con la Reggiana, in un derby con il Modena. Era la gara d’andata. Al ritorno al Mirabello diventai un eroe per aver parato due rigori agli storici avversari al 90’. Partita epica».
Ma c’era qualcosa davvero che la accomunava al celebre personaggio interpretato da Sylvester Stallone?
«Forse perché il portiere viene sempre visto come uno spericolato, che si tuffa tra le gambe degli avversari. Ero molto fisico e facevo dei salti incredibili, spregiudicato nelle uscite. Naturalmente, quando ti appiccicano questo soprannome, ti rimane cucito addosso».
Perché un appassionato di calcio dovrebbe essere invogliato ad acquistare il libro?
«Perché è la storia di un ragazzo di campagna partito con i suoi sogni, che è riuscito a realizzarli. Nonostante una carriera professionale un po' modesta, il tutto è proseguito come preparatore dei portieri e in quella veste ho avuto le soddisfazioni maggiori, perché ho allenato tanti anni in Serie A, a Napoli e Cagliari».
Ripercorriamo velocemente gli anni da giocatore: si parte dal Padovano e si chiude a Trieste.
«Sono nato a Montagnana solo perché lì c’era l’ospedale, ma la famiglia è di Casale di Scodosia. Secondo di due figli, ho una sorella più grande di un anno, il papà, che non c'è più, lavorava al Consorzio Agrario, mentre la mamma, che oggi ha 89 anni, è casalinga, e faceva la sarta. Come tanti bambini, avendo un genitore appassionato di calcio e tifoso dell’Inter, ebbi la fortuna un giorno di essere portato all'Appiani per vedere Padova-Inter, e mi piazzai dietro la porta difesa da Lido Vieri. Ne rimasi incantato. Poi una sera sempre papà mi accompagnò a San Siro ad assistere ad un’Inter-Aek Atene di Coppa, con i nerazzurri vittoriosi 4 a 1. Da quelle esperienze nacque la passione per il calcio, cominciando a Casale di Scodosia».
Ma è vero che il suo primo ruolo era attaccante?
«Vero. Mi piaceva stare là davanti, avevo un gran sinistro».
Un bel cambiamento diventare portiere. Come fu possibile?
«Giocavo un po’ di qua e un po’ di là, avevo una buona fisicità e segnavo: 6-7 gol con gli Allievi del Casale, ma difendevo pure la porta. Mi avevano adocchiato quelli del Monselice e venni chiamato a fine anno per un provino. Lo superai e mi presero proprio come portiere».
Si dice che voi numeri 1 siate tutti o quasi un po' matti. Falso mito?
«Sì, è un falso mito. Il portiere deve invece ragionare molto, richiamare i compagni e avere l’attenzione sempre a mille. Da dietro riesci a vedere tutto quanto».
Come ha finito per credere che fosse davvero un predestinato a finire in porta?
«Lo spartiacque fu Edy Reja (l’allenatore che ha scritto la prefazione del libro, ndr). Il Monselice andò in C/2 e nel '78/79, a soli 16 anni e mezzo, con mister Mauro Gatti esordii nel secondo tempo dell’ultima partita di campionato, contro il Vigevano. Finì 2 a 2, eravamo già salvi. L’anno dopo rimasi sempre con la prima squadra, ma lavoravo anche, perché avevo smesso di studiare (due anni di istituto per geometri). Facevo l’idraulico nella ditta di mio zio, e mi allenavo tre giorni alla settimana. Quando arrivò Reja nel 1980, con Bepi Galtarossa direttore sportivo, ci disse chiaro e tondo che avremmo dovuto cambiare sistema, perché eravamo professionisti e dunque bisognava allenarsi tutti i giorni, dal martedì al sabato. Mio padre andò a parlargli per spiegargli che lavoravo. E la sua risposta fu: “Per me, signor Facciolo, suo figlio Nico sarà uno che vivrà con il calcio”. E così è successo».
Non c'è dubbio che l'ambiente più esaltante in cui ha vissuto in carriera sia stato quello della Reggiana, con il rapporto straordinario avuto con Pippo Marchioro.
«Reggio Emilia è stata fondamentale per me. Dopo Monselice, avevo giocato per due stagioni a Pordenone, sempre in C/2. Due buone stagioni e la Reggiana mi prese. Lì ebbi la fortuna di trovare un vero maestro, William Vecchi. Sei anni con lui, è stato il mio mentore. Una volta assimilati i suoi insegnamenti, non facili all'inizio, divenni uno dei portieri più importanti della Serie C, vincendo un campionato proprio con Marchioro. Quindi la B, sfiorando la Serie A, che gli emiliani raggiunsero l'anno dopo quando ero andato via. Passai alla Triestina, dove feci bene la prima annata, per poi trovarmi con la società fallita. Era il 1994. Fu allora che decisi di smettere di giocare, ero moralmente ko. Avevo solo 32 anni».
E poi?
«Un anno di fermo, quindi nel 1995 il Monselice mi fece la proposta di allenare i portieri. Trovai Massimo Ceccato (oggi d.g. all'Arcella, in Eccellenza ndr), che mi disse che al Giorgione Gigi Capuzzo era senza un preparatore del ruolo. Era sempre C/2. Così iniziai la mia seconda carriera, allenando i portieri del Monselice e della squadra di Castelfranco Veneto. Da lì in poi Trento, Padova tre anni, due fasi distinte a Cagliari e poi Napoli. Sempre con Reja alla guida di sardi e campani».
Il più grande portiere che ha avuto per le mani?
«Federico Marchetti. Tornato dal Mondiale del 2010 con la Nazionale, ero convinto che esplodesse. Purtroppo, litigò con il presidente Cellino perché voleva andare alla Sampdoria e il patron lo relegò a fare il terzo portiere a Cagliari».
E quello che avrebbe potuto e dovuto fare di più?
«Alessio Bandieri al Padova. Era stato al Venezia e aveva giocato anche nel Napoli. Un ragazzo che aveva delle qualità, soprattutto una potenza esplosiva. Non è riuscito però a restare a determinati livelli».
Su chi scommetterebbe per il futuro?
«Su Mattia Fortin, del Padova. A 21 anni ha qualità da vendere. Può fare una significativa carriera».
Pensieri e parate in un libro pieno di vita
“Mi chiamavano Rambo - la mia vita da portiere e preparatore” (250 pagg. e 130 foto, editore U.P. Urbone Publishing, prezzo di copertina 18 euro) è un’autobiografia che Nico Facciolo ha scritto insieme ad Antonello Cattani, un amico di Reggio Emilia, grande tifoso della Reggiana, promotore finanziario, già autore in passato di analoghe pubblicazioni sportive, in particolare su William Vecchi e Pippo Marchioro.
Prefazione di Edy Reja, è dedicata ai due genitori dell’ex portiere, il papà Dino che lo avviò al calcio e che venne a mancare nel 1999, e la mamma Italina, oggi 90enne.
La presentazione ufficiale del libro sarà il 12 dicembre al vecchio stadio Mirabello di Reggio Emilia, ore 21, seguita da altre due nel Padovano, il 16 a Monselice nel ristorante-pizzeria Walhalla, e il 19 nella biblioteca di Casale di Scodosia, anch’esse alle 21.
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