Roby Baggio, alle origini di un mito
Vent’anni fa la fine di una carriera leggendaria. Papà Florindo, interista, lo chiamò Roberto come omaggio a Boninsegna. Savoini (ex Vicenza): «È come il fungo migliore, lo trovi senza andare in cerca»
La prima volta che lo misero fuori squadra fu per indisciplina tattica; il guaio è che aveva solo 3 anni.
Successe all’asilo: la mamma ce l’aveva portato perché imparasse a vivere in gruppo. Ma a Roberto Baggio, classe 1967, segno dell’Acquario, sesto figlio di Florindo Baggio carpentiere e di Matilde casalinga, non andava giù l’idea di sottrarre prezioso tempo al gioco, per stendersi su una brandina a fingere di dormire, subito dopo pranzo.
Così lo rispedirono a casa, dove peraltro dimostrò subito la sua grande passione; come ricordava Cesare Metterle, idraulico con il calcio nel sangue, che sarebbe stato il suo primo presidente tesserandolo a 12 anni (cartellino numero 302681), e che all’epoca abitava davanti ai Baggio: «Era sempre in cortile a giocare a pallone. E che stecche tirava! A 4 anni, calciava già come uno di 10…».
Giudizio rincarato da suo figlio Massimo, un anno più giovane di Roberto, protagonista con lui di epiche sfide alle elementari nel campetto dietro la scuola: «Troppo bravo! Quando giocavamo le partite, decidevamo prima che i suoi gol non contavano nel punteggio».
Papà Florindo, a dire il vero, l’avrebbe voluto ciclista, per via di una passione viscerale per le due ruote: pur sgobbando come un matto in officina, disputò per una decina d’anni gare da cicloamatore, vincendone svariate decine; smise solo per una brutta caduta a Mestre, che lo bloccò una settimana in ospedale.
All’ultimo dei suoi otto figli mise nome Eddy, per omaggio a Merckx di cui era sfegatato tifoso. Ma gli piaceva anche il calcio: era tifoso dell’Inter, e quando nacque il sesto figlio lo chiamò Roberto dedicandolo a Boninsegna. «È stato l’uomo più importante della mia vita», confesserà Roby nell’agosto 2020, quando il papà si spense a 89 anni di età.
Il 15 dicembre 2002, quando in un Brescia-Perugia segnò il suo gol numero 300, subito dopo si piazzò davanti alla telecamera gridando: «Papà ti amo! ».
Il pallone, l’ha avuto da subito nel Dna. Spiegava Piero Zenere, suo primo allenatore nel Caldogno: «Faceva già allora quello che avrebbe fatto poi. Cosa insegnargli? Solo come stare in campo, il resto ce l’aveva nel sangue».
Il che non escludeva comunque qualche rude ripassata. Di mestiere, Zenere faceva il fornaio, e ogni notte si alzava subito dopo le 2 per fare il pane; poi, di giorno, seguiva la squadra di ragazzini assieme a un pugno di amici, ciascuno mettendoci e rimettendoci del suo.
A fine anno tiravano le somme, e siccome il totale era sistematicamente in rosso, si guardavano in faccia e mettevano mano al portafoglio.
In panchina, Zenere era uno tosto: «Di scarpate nel culo ai “bocia” ne ho rifilate più d’una… Un giorno uno dei miei ha fatto un fallaccio durante una partita. Sono entrato in campo e ho detto all’arbitro: di qui non mi muovo se non lo caccia fuori! Ci ha espulso tutti e due…».
A Roberto, comunque, c’è sempre stato poco o nulla da insegnare, come faceva presente Giulio Savoini, vecchia gloria del Lanerossi Vicenza (317 presenze da calciatore, poi allenatore dei biancorossi, scomparso nel 2015 a 80 anni): «Un giorno, era la primavera 1980, il medico sociale Franco Binda mi riferì che un suo infermiere di Caldogno gli aveva segnalato un ragazzino di 13 anni, sostenendo che fosse un fenomeno. Il giorno dopo lo chiamai per un provino allo stadio Menti, e subito dopo, versando 500mila lire alla sua società, lo reclutai tra i giovanissimi».
Dove avrebbe segnato 110 gol in 120 partite; in prima squadra avrebbe poi debuttato appena tre anni dopo, il 16 giugno 1983, contro il Piacenza.
Spiegava Savoini che «Baggio calciatore nasce quando lo concepiscono i suoi genitori. Nessuno gli deve insegnare niente. Uno così, devi solo metterlo in prima fila perché gli altri copino. E io in prima fila l’ho messo».
Roberto del resto era davvero un predestinato, in tutti i sensi. Difficile, praticamente impossibile, imbrigliare la sua voglia di danzare lambada sui campi di calcio, prima ancora di iniziare il suo precoce percorso nel Caldogno.
Dovette rassegnarsi a suo tempo mamma Matilde, che ci rimise svariati vetri di casa, e un anno a Natale pure quelli dell’ingresso; idem papà Florindo, che in prima media se lo vide bocciare per reiterato assenteismo; e che già era pronto a prenderselo in officina dopo la terza, se gli fosse andata male col pallone.
E hanno dovuto limitarsi a prendere atto di quel prodigio tutti i suoi allenatori, compresi i non pochi con cui poi sarebbe andato in rotta di collisione, inclusi grandi firme come Lippi, Capello, Sacchi, Ulivieri…
Perché c’è modo e modo perfino nel tracciare una semplice “O”, come ha fatto capire Giotto. Ma come e perché si diventa il Giotto del calcio (o Raffaello, per usare il termine di paragone di Gianni Agnelli)? Rispondeva Savoini, che amava chiamarlo Zico: «Il campione arriva che non te ne accorgi neanche; è come il fungo migliore, che lo trovi senza andarne in cerca, solo passandoci accanto per caso».
Un dono della natura, dal bosco di Caldogno.
Dal bosco di Caldogno al Pallone d’Oro
Vent’anni fa. Tanti sono passati da quel 2004 in cui Roberto Baggio ha chiuso la sua straordinaria vicenda da calciatore: con la nazionale il 28 aprile, in un’amichevole contro la Spagna disputata a Genova e finita 1 a 1; con la sua ultima squadra, il Brescia, il 16 maggio successivo a San Siro, nella partita di fine campionato contro il Milan, vinta da quest’ultimo per 4 a 2.
Un lunghissimo percorso, il suo, da 643 gare e 318 gol complessivi: 27 in azzurro, 291 con le squadre in cui ha militato, Lanerossi Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Conquistando due scudetti, una coppa Italia, una coppa Uefa, e partecipando a tre Mondiali (1990 Italia, 1994 Usa, 1998 Francia). Nel 1993 si è aggiudicato il Pallone d’Oro.
Un percorso iniziato da piccolissimo a Caldogno, paese a ridosso di Vicenza che all’epoca contava meno di 8mila anime, mentre oggi ha superato le 11mila; con una passione radicata per il calcio, che ancor oggi registra la presenza di due squadre: il Caldogno, che milita in promozione; e il Cresole, frazione assieme a Rettorgole, in seconda categoria.
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