Sliding doors, così è cambiata per sempre la vita di Primo Carnera

La storia del grande campione friulano: ad Adolphe Ledudal cadde lo sguardo su quell’omone di 2 metri e 52 di piede

Francesco JoriFrancesco Jori
Carnera, a destra, nel 1935 al Madison Square Garden strappò il Mondiale dei massimi a Jack Sharkey
Carnera, a destra, nel 1935 al Madison Square Garden strappò il Mondiale dei massimi a Jack Sharkey

 

Non fosse stato per la curiosità e la voglia di passare una serata diversa, giusto cent’anni fa, avrebbe rischiato di rimanere per tutta la vita un signor nessuno. Fu proprio un caso se quel ragazzotto di neanche 20 anni, emigrato in Francia da adolescente dalla sua friulana Sequals, seppe invece diventare Primo Carnera, un autentico mito della box non solo italiana: era il 1925 quando a Le Mans, nella Loira, dov’era approdato qualche anno prima in casa di parenti, decise di andarsi a godere lo spettacolo di un piccolo circo che in quei giorni aveva piantato lì le tende.

E fu proprio in quell’occasione che ad Adolphe Ledudal, gestore della baracca, cadde lo sguardo su di lui: quasi scontato, del resto, visto che già allora Carnera poteva esibire due metri di altezza, un collo da toro e scarpe numero 52.

Lo ingaggiò a caldo, sul posto, garantendogli vitto alloggio e un modesto compenso: corrispettivo comunque allettante per uno che se n’era andato di casa, in un Friuli devastato dalla Grande Guerra, per non morire di fame, e che sbarcava il lunario facendo il carpentiere per una manciata di soldi.

Anche così, Carnera si sarebbe ridotto allo stato del classico fenomeno da baraccone, grazie a una montagna di muscoli che girando per la Francia gli valsero svariati quanto coloriti soprannomi (uno, fra tutti, chissà perché: “Juan lo spagnolo, terrore di Guadalajara”).

Ad avviarlo su quella che sarebbe stata una strada lastricata di fama e di soldi fu il caso: una sera del 1928, quando il circo era di scena ad Arcachon, cittadina di 10mila anime, tra il pubblico era presente Paul Journée, pugile francese di grande valore, ex campione dei pesi massimi, ormai ritirato dal ring.

Il quale, vedendolo in azione, ne colse al volo le enormi potenzialità e lo convinse a dedicarsi alla boxe, insegnandogli i fondamentali e affidandolo alle sapienti mani manageriali di Leon Sée.

Era il 29 giugno: guarda caso, proprio il 29 giugno di cinque anni dopo, nel 1933, Carnera avrebbe conquistato il titolo mondiale dei pesi massimi, primo italiano nella storia, battendo sul ring del mitico Madison Square Garden di New York il campione in carica, l’americano Jack Sharkey, per ko alla sesta ripresa. E diventando un eroe nazionale.

Certo, gli esordi non erano stati facili. Carnera vinse i primi incontri per ko, data la potenza dei suoi pugni; ma risultava lento e maldestro, al punto da venire ribattezzato da qualche giornalista con l’immagine derisoria di “torre di gorgonzola”.

Una presa in giro che nel corso della sua intensa carriera (89 vittorie su 103 incontri, di cui 76 per ko, 14 sconfitte) seppe riscattare trasformando quell’etichetta in “la montagna che cammina”, “l’uomo più forte del mondo”, e pure “gigante buono” per via del suo carattere.

La descrizione migliore, del resto, gliel’avevano assegnata i suoi compaesani furlani, orgogliosi dei suoi successi: “Guarnare cantun puin al spache le tiare”, Carnera con un pugno spacca la terra. Tenne botta per altri quattro anni, fino al 1937; ma entrando presto in una parabola discendente che l’avrebbe portato al ritiro dal ring il 14 dicembre, dopo una sconfitta a Budapest a opera di un anonimo avversario.

A metterlo ko una volta per tutte era stato del resto il fisico: soffriva di diabete, gli fu tolto un rene. Si concesse un brevissimo ritorno a Trieste, nel 1945, a guerra conclusa, con tre match tutti regolarmente persi.

Non aveva però chiuso del tutto con la ribalta. Nel 1946, trasferitosi negli Stati Uniti, scoperse il wrestling, che a sua volta lo scoprì: si aggiudicò tutti gli incontri disputati, e conobbe la prima sconfitta solo nel 1948, in palio il titolo mondiale dei pesi massimi della categoria, battuto dall’americano Lou Thesz. Ma riuscì anche a levarsi una grande soddisfazione nel 1956, a 50 anni compiuti, conquistando la corona iridata a coppie assieme allo statunitense Bobo Brazil.

Chiuse del tutto nel 1963, passando dal ring al set che frequentava da anni, con parti secondarie ma comunque richieste in una ventina di film.

A sconfiggerlo definitivamente non fu un uomo, ma una malattia senza scampo: la cirrosi epatica lo indusse a tornarsene a casa, nella sua Sequals, dove morì nel 1967; sempre in quel fatidico 29 giugno che aveva segnato l’inizio della sua carriera e la conquista del titolo mondiale.

Fu lì che “suonò per lui l’ultimo gong”, come ebbe a commentare con toni commossi e indimenticabili Enzo Tortora, all’epoca conduttore della “Domenica Sportiva”.

Venuto a morire lì da dov’era partito, mezzo secolo prima, Carnera raccolse così “la sua vittoria più grande, l’affetto della gente che gli voleva bene”.

Il suo nome, vivo tuttora, finì per identificarsi con un’epoca: una sorte, questa, sempre per citare Tortora, che “tocca solo agli eroi schiettamente popolari, che seppero essere gente con la gente e diventare misteriosamente proprietari dei nostri sogni”.

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