Italia patria del tennis: adesso inchiniamoci all’idea di squadra
È tornata con forza la speranza che almeno nello sport si riaffacci il concetto di squadra: se accade nel tennis, disciplina per folli e solitari, c’è da augurarsi che si allarghi in altri campi della società prigionieri di litigi e polemiche
Nella stagione d’oro del tennis italiano, cominciata l’estate dello scorso anno e definitivamente esplosa in questo 2024 con i due titoli Slam di Sinner, il balzo di Jasmine Paolini al quarto posto della classifica mondiale femminile, il trionfo delle ragazze nella Billie Jean King Cup e adesso il bis in Spagna dei maschi nella Davis, è tornata con forza la speranza che almeno nello sport si riaffacci il concetto di squadra.
Sentimento banale e non nuovo, a dire il vero, ma utile a indicare un sentiero, una linea dentro il futuro, un destino manovrabile.
Se accade nel tennis, disciplina per folli e solitari, c’è da augurarsi che si allarghi in altri campi della società prigionieri di litigi e polemiche.
Nell’ultimo anno abbiamo assistito non solo, dunque, alla maturazione anche culturale di un leader spietato e consapevole della sua predestinazione come Jannik Sinner. Non solo alla voglia rabbiosa di ripartire di Matteo Berrettini, che sembrava irrimediabilmente sperduto tra le sue rovine. Non solo all’intelligenza e al coraggio dimostrati nella malattia e nel dolore da Tatiana Garbin, sorella maggiore delle azzurre. C’è di nuovo una squadra, vanno ripetendo tennisti, dirigenti, appassionati e tifosi, mentre nei circoli gli iscritti sono aumentati in media del trenta per cento, grazie soprattutto all’effetto Sinner.
La “squadra” è stata celebrata da libri e film, abbiamo avuto a che fare con il suo potere e il suo fascino fin da bambini, poi da adolescenti. Nello sport ci ha fatto godere la valanga azzurra di Thoeni e Gros, di Radici, Stricker, Schmalz e Pietrogiovanna. Giganti cresciuti nelle mani e nel cuore di Mario Cotelli, il padre padrone dello sci.
Poi abbiamo avuto l’Italia di Bearzot che sfiora il titolo mondiale nel 1978 in Argentina e trionfa quattro anni dopo in Spagna sotto gli occhi di Sandro Pertini. Contro tutti e tutto, al termine di una guerra civile del calcio.
E ancora la nazionale di Marcello Lippi nel 2006 in Germania che supera ai calci di rigore la Francia a Berlino. Una risposta d’orgoglio di fronte all’ennesimo scandalo sportivo che punisce la Juventus con la retrocessione d’ufficio in serie B.
E, ancora, le imprese del Settebello nella pallanuoto e quelle delle pallavoliste di Velasco. Nel tennis una “squadra”, se si escludono le imprese di Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci, mancava addirittura da più di quarant’anni, dallo splendore di Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli che nel 1976, affidati a Pietrangeli e Belardinelli, vinsero nel Cile dell’assassino Pinochet la Coppa Davis della politica. Andiamo, non andiamo, andiamo.
In un mondo in cui le gerarchie sono sempre più fluide e sembra inevitabile la bancarotta dei sentimenti, che cosa comporta essere una squadra? Quali doveri di compassione deve assolvere in uno sport milionario come il tennis?
Forse basterebbe conservare l’esperienza da moschettieri – uno per tutti, tutti per uno – di Malaga. Imporre uno stile al proprio lavoro. Scrive Yannick Noah nel suo “1983”, ricordando la vittoria al Roland Garros: “Attaccare è uno stile di gioco ma è anche uno stile di vita. Correre dei rischi è uno stile di vita. Puntare tutto sul rosso è uno stile di vita”.
Il presidente della Fitp Angelo Binaghi, uomo difficile ma fortunato, ha davvero puntato sul Rosso. Sinner, che diventerà il più grande atleta italiano di tutti i tempi, a Malaga si è preso subito il ruolo di leader e si può immaginare che abbia imposto alla squadra la scelta del doppio: fuori Bolelli e Vavassori, dentro lui e Berrettini nel match decisivo con l’Argentina. Sarà un buon capo solo se saprà prendersi cura dei suoi compagni. —
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