Delitto al castello: l’omicidio politico di Christian Waldner
Il rampollo di una ricca famiglia sudtirolese ucciso a sangue freddo nel suo maniero, sopra Bolzano, nel febbraio 1997. L’ideologo degli Schützen confessa, poi ritratta: e da quel momento in poi, succede di tutto
È il 17 febbraio 1997, un lunedì: il corpo senza vita di Christian Waldner, consigliere regionale della destra populista sudtirolese, viene trovato a Castel Guncina, sopra Bolzano. È stato ucciso qualche giorno prima. Da chi? Da Peter Paul Rainer, l’ideologo degli Schützen. Che prima confessa e fa ritrovare l’arma del delitto, poi si rimangia tutto e parla di un complotto. Nelle settimane precedenti, si era esercitato a sparare con una carabina nella sede del partito dei liberalnazionali. Ma che storia è mai questa? Spuntano strani personaggi, il movente sarebbe legato a un diploma falsificato. Ma, dunque, la politica non c’entra? Certo che sì: è tutto intrecciato, in questa complicatissima vicenda che, tra fughe e colpi di spugna, si trascinerà per undici anni e otto processi prima della parola «fine». L’altra faccia di un Alto Adige patinato, da cartolina, ordinato dentro e fuori.
«Il delitto Waldner» è il volume scritto da Paolo Cagnan per la collana «Storia dei grandi misteri d’Italia», Rcs 2023. Vi proponiamo qui sotto un abstract del libro. A cura di Barbara Biscotti.
Il corpo è lì, nel piccolo ufficio dietro il bancone ormai inutile di quella che un tempo fu la reception di un albergo di livello. Giace supino in una posizione innaturale, e non servirebbero neppure gli evidenti segni di trascinamento a dirci che l’omicidio è avvenuto altrove.
Già: omicidio.
Il volto insanguinato, le braccia piegate verso l’alto, le dita raccolte quasi a formare un pugno. Gli occhi chiusi, e chissà se l’assassino gli abbia abbassato le palpebre per non vedere quello sguardo che immagino di sbigottito stupore, più che di terrore.
Quel cadavere non appartiene a un uomo qualsiasi, sempre che ne esistano. E anche il luogo, non è un luogo qualunque. Quel corpo appartiene a Christian Waldner, 37 anni, rampollo di una nota famiglia della borghesia sudtirolese di Bolzano. E quel luogo è Castel Guncina, un imponente complesso che veglia sulla città, appollaiato sulle pendici spavaldamente coltivate a vite.
Waldner è un viveur. Donne, motori, festini, forse anche qualche eccesso di troppo - stando ai “si dice”. Ama la vita, sa spassarsela. Ma ha anche una vocazione politica, nata ancora in adolescenza. È un esponente di spicco della destra tedesca. Ambizioso, rampante, cinico al punto giusto. Ed è un consigliere regionale.
Ecco, riassumendo: un noto politico viene assassinato nel suo castello, addì 15 febbraio 1997.
È una bomba, mediaticamente e politicamente parlando. Quella che segue è la storia di un delitto clamoroso, di quelli che fanno parlare di sé ancora oggi. Ed è una storia, come vedremo, che a una verità giudiziaria chiara ma figlia di un percorso tortuoso e accidentato affianca una lettura alternativa, complessa, intrigante e complottistica. Per questo, converrà distinguere nettamente tra fatti e opinioni.
Dunque: tralasciamo per ora il contesto e concentriamoci sulla scena del delitto. Partendo da una circostanza che apparirà ben presto chiara: il giorno del ritrovamento del cadavere - un lunedì, per inciso - non coincide affatto con quello del delitto. Il fatto è che uno come Waldner non poteva pensare di sparire nel nulla. Il sabato precedente, lo attendevano a Milano dove la Lega Nord scriveva una nuova pagina della sua tormentata storia: la rivisitazione del suo Statuto, con l’inclusione di una chiosa politicamente decisiva: “Per l’Indipendenza della Padania”.
Ci torneremo più avanti, per ora basti dire che Waldner, a Milano, non arriverà mai. Passato il weekend, il suo segretario personale Hansjörg Kofler inizia a preoccuparsi seriamente: il cellulare di Christian suona a vuoto, mai successo prima. E visto che il suo capo è un politico, avvisa due poliziotti, due della Digos che ormai conosce bene.
Lui non sale al castello, ci manda un amico di Waldner, Jochen Rainer, assieme alla segretaria del Garnì (dimenticavo: questo è diventato, nel frattempo, l’albergo di un tempo) che ha le chiavi: Erika Stuppner. La Subaru di Christian è nel parcheggio scoperto davanti al complesso, ma c’è qualcosa di strano: la gomma anteriore destra è a terra. Non sgonfia, si appurerà poi, ma colpita con un’arma. Sì, è uno sparo quello. Ci sono pure i due fori, quello d’entrata e quello d’uscita, dall’alto verso il basso. Epperò Raul, il doberman di Waldner, è lì tranquillo al suo posto. Il padrone non è alla reception, né lo rintracciano nella camera 108 dove vive. La sua “vera” macchina, una Porsche, è regolarmente parcheggiata in garage.
Erika Stuppner prova allora lo stanzino dietro alla reception, lo apre e urla. Sono le 17.55 e il corpo senza vita del consigliere è lì. Ci sono svariate ferite da arma da fuoco. Arriva la Scientifica, arriva il medico legale. Prime risultanze: evidenti segni di trascinamento, quasi certamente è stato attinto davanti al bancone e poi preso per le braccia e spostato dentro all’ufficio là dietro, e che non si vede dall’ingresso. Cinque colpi, sparati a bruciapelo da un’arma di piccolo calibro. Quando? Almeno 48 ore prima. Più precisamente, si stabilirà poi in sede di autopsia, attorno al mezzogiorno del sabato. Dunque, il 15 febbraio.
La segretaria del Garnì ricorda bene l’ultima volta che ha visto Waldner vivo: alle 11.50 del 15 febbraio. Era nello stanzino, probabilmente con un’altra persona. Lei non può dire chi fosse, non lo sa. Ma ha avuto l’impressione che Christian non volesse farglielo sapere. La porta era socchiusa. E comunque, Stuppner dice di avere notato sulla scrivania due bicchieri pieni di succo d’arancia.
Il capo della Mobile, Alexander Zelger, rientra anticipatamente dalle ferie e si proietta su al castello dove trova il magistrato di turno: è il sostituto procuratore Cuno Tarfusser. I giornalisti, manco a dirlo, sono già tutti lì. Se alla definizione spannometrica di “delitto politico” è sufficiente lo status della vittima, allora non c’è problema. Se invece occorre indagare il movente, la strada è ancora lunga. Certo, le prime indagini si muovono su un doppio binario: l’attività politica da un lato, la vita da yuppie dall’altro: bella vita, belle donne, belle macchine e tante feste.
La corsa contro il tempo
Un primo elemento confusivo riguarda la posizione di un tuttofare del castello che non si accorge del cadavere (comprensibile, se non apri l’ufficio) ma ripulisce le macchie di sangue davanti al balcone – prima dell’arrivo della Digos – credendole succo di frutta, o qualcosa di simile. Ci è o ci fa, si chiedono i poliziotti, per poi decidere che di sempliciotto trattasi.
Nell’ufficio c’è un apparecchio telefax che è stato azionato l’ultima volta verso le 12 di quel sabato. Dall’apparecchio è stato spedito un comunicato stampa firmato da Waldner con la sigla della sua nuova formazione politica, Bündnis 98. È una nota contro i finanziamenti pubblici ai nomadi e l’immigrazione discriminata: un suo classico. Anche il suo cellulare è muto da quel momento. Dunque, bisogna ricostruire gli ultimi movimenti e la ragnatela di incontri.
Quanto al comunicato, non sembra contenere nulla di particolare; nulla di diverso dal solito, insomma. E però una traccia c’è: si viene a sapere che a scrivere le note stampa firmate da Waldner era solitamente un suo sodale, Peter Paul Rainer. Più conosciuto come l’ideologo degli Schützen, il corpo (solo apparentemente) folcloristico che propugna l’unità storica e culturale del Tirolo, è anche considerato il braccio destro del consigliere. Uno da sentire, come minimo.
Conoscete, credo, la regola aurea dell’investigazione criminale: le prime ore sono decisive. Altresì detto: l’assassino, o lo prendi subito o non lo becchi più. Qui bisogna andare ancora più di corsa, perché c’è da recuperare il tempo intercorso tra l’omicidio e la sua scoperta. Non è una missione impossibile: mentre inizia il valzer degli interrogatori, parte anche il giro dei confidenti (che in ambito politico ha sempre senso) che sembra fornire due importanti tessere, entrambe legate a Rainer.
La prima: Waldner avrebbe fornito al suo sodale un falso diploma di maturità per consentirgli di iscriversi all’Università di Innsbruck, in Tirolo. Sembrerebbe già un movente fatto e finito: un motivo di tensione tra i due, un segreto inconfessabile, una possibile fonte di ricatto.
La seconda: Rainer fa parte degli Schützen ma anche dei Freiheitlichen, un partito populista di destra ispirato dal leader austriaco Jörg Haider. Ebbene, parecchi mesi prima, nella sede del partito in centro a Bolzano qualcuno noterà piccoli fori di proiettile su alcuni libri e pacchetti di fazzoletti. Ora, un informatore sostiene che quella esercitazione di tiro fosse stata portata a termine con un fucile di piccolo calibro proprio da Rainer con un suo amico, tale Günther Messner.
Una cosa folle, al limite dell’incredibile. L’informatore, si scoprirà poi, non è uno che passava di là per caso ma lo stesso Kofler, il portaborse di Waldner. Un ex carabiniere che ha vissuto molte vite, e che in prima battuta sarà a sua volta sospettato. Perché no? Ma lui ha un alibi, quel giorno era andato a trovare la fidanzata dalle parti di Salisburgo, e amen.
A proposito di primi sospettati: in qualche modo, l’attenzione degli investigatori si appunta anche su Lieselotte Palma, dipendente del Commissariato per il Governo e amica della vittima. Viene sentita più volte. “Waldner mi ha chiamata in ufficio alle 11.45 di sabato, chiedendomi se potevo spedirgli un fax. Dieci minuti dopo, un’altra telefonata in cui mi chiedeva di andare subito al bar Guncina di via Fago”. Se Christian scende dal castello verso Bolzano, il bar è uno dei primi locali che incontra. Ma dalla Palma, non arriverà mai. Lei dice di essersi allarmata, ma non subito: il lunedì successivo chiama la Stuppner e le chiede di andare a vedere se Christian sia al castello: lo farebbe lei, ma non ha le chiavi.
La pista Rainer arriva dopo decine di interrogatori e sembra decisamente più promettente. E come se non bastasse, mentre si sondano altri scenari – questa volta non più politici – alla Mobile arriva un aiutino non richiesto. Una coppia di Sarentino, un paese non lontano dal capoluogo, vede il suo volto sul quotidiano locale Tageszeitung il 19 febbraio – che lo aveva intervistato - e si presenta in questura.
Noi, dicono sostanzialmente i due, Eleonore Kerschbaumer e Helmuth Kofler, questo tizio qui l’abbiamo incrociato, anzi ci siamo quasi scontrati: “Sabato mattina, stavamo percorrendo via Beato Arrigo a bordo di una Fiat Uno quando ci è venuta incontro una macchina che procedeva a velocità in senso opposto. La strada è stretta, due macchine ci passano a malapena. Lui non si è fermato, i nostri specchietti si sono toccati. Lo abbiamo visto bene in faccia, potete immaginare. Nessun dubbio, era lui”.
Quella strada, e la direzione di marcia della macchina di Rainer, sembra suggerire una facile suggestione. Stava scendendo giù dal castello, dopo avere ucciso Waldner.
Tirassegno al partito
Intanto, gli agenti fanno una capatina in Via Vinci, nella sede dei Freiheitlichen, dove trovano conferma a quell’incredibile voce sul partito trasformato in una sorta di poligono di tiro. Trovano i libri bucherellati e frammenti di proiettile. Potrebbe essere la stessa arma usata per uccidere Waldner? Sì, potrebbe. Spiegherà poi lo stesso Zelger in un suo libro che ritroveremo più avanti: “La polizia scientifica forense non ci ha messo molto a trovare uno dei proiettili, finito rapidamente sul tavolo del laboratorio del reparto speciale di balistica forense di Padova per ulteriori esami. Gli esperti non hanno avuto problemi a stabilire che il proiettile del libro e quello sparato a Waldner non solo erano dello stesso calibro, ma erano anche stati sparati dalla stessa arma. Ogni canna di un'arma lascia infatti una traccia unica sui proiettili dopo lo sparo, paragonabile a un'impronta digitale”.
A questo punto, ci sono molti elementi convergenti ma bisogna stabilire come giocarseli. Tarfusser e Zelger decidono di giocarsi la carta Messner, l’amico di Rainer che avrebbe preso parte alle esercitazioni al partito.
Lo sentono come testimone. E lui, più che discolparsi dai fatti di Via Vinci, fornisce un alibi a Rainer. La mattina di sabato, dice, eravamo insieme nella sede degli Schützen, che si trova in pieno centro storico; e poi - aggiunge - siamo andati a pranzo all’Hotel Laurin. Sembra un alibi telecomandato, ma soprattutto il racconto confligge nei tempi con la quasi collisione di via Beato Arrigo, che sembra un fatto pacifico e decisivo.
"Caro signor Messner, lei rischia di essere accusato di complicità nell'omicidio di Waldner" si ricorda di avergli detto Zelger: “Gli spiegai che aveva ancora la possibilità di correggere la sua dichiarazione. Gli sono bastati meno di due secondi per rivederla. Spiegò che Rainer gli aveva chiesto, in quanto suo amico, di fare quella dichiarazione per colmare un vuoto di tempo nella mattinata. Si giustificò dicendo che aveva dato per scontato che il suo amico non potesse avere nulla a che fare con la morte di Waldner; voleva solo evitare che fosse sospettato”.
Mentre Messner crolla miseramente, in una stanza della questura, il suo amico sbugiardato è lì che sfrigola in un’altra. Li hanno convocati insieme.
Rapido consulto, il commissario elenca gli indizi chiari e schiaccianti a carico di Rainer:
- Ha sicuramente scritto il comunicato di Waldner inviato via fax ai mass media, ampiamente probabile che i due si fossero dati appuntamento al castello, quella mattina
- L’incidente di via Beato Arrigo conforta il teorema: lui che fugge in macchina dal castello dopo il delitto, diretto verso l’Hotel Laurin dove effettivamente aveva un pranzo di lavoro
- Le esercitazioni di tiro nella sede del partito in Via Vinci con la stessa arma del delitto
- La richiesta di procurarsi un falso alibi tramite Messner
- Infine, la questione del falso diploma come possibile movente.
C’è quanto basta per un mandato d’arresto. È il momento di torchiarlo, metterlo all’angolo, farlo confessare. Rainer, comunque, sembra tranquillo. Veste un dolcevita grigio, una giacca a spina di pesce e un giaccone marrone.
“No, mi spiace, non c’entro proprio” dice lo Schütze alla prima contestazione. Ma adesso gli serve un avvocato. Nomina Sandro Canestrini, una scelta più che logica. L’avvocato roveretano, che pure non parla né capisce il tedesco, è da una vita il difensore della scena irredentista sudtirolese.
Crede nel diritto all’autodeterminazione.
Difende la libertà d’espressione e di manifestazione di Eva Klotz e degli ex dinamitardi degli anni Settanta che sognano l’annessione all’Austria o la creazione di uno Stato libero del Sudtirolo.
Combatte contro gli articoli del codice penale – come il delitto di attività antinazionale all’estero – che sono retaggio del codice Rocco, varato sotto il fascismo.
Un grande democratico, coerente, spesso finito sotto bersaglio politico.
È ormai tardi, tardissimo, quando Zelger dispone la convocazione del legale. Il quale, però, non si trova. Rainer viene portato in un ufficio dell’antidroga, guardato a vista da due agenti. Niente manette, non servono, dice Tarfusser. Svela il capo della Mobile in un libro con i suoi casi più famosi (“Ich habe heute noch Gänsehaut”, Athesia 2023) di avere scambiato quattro chiacchiere con il sospettato. Sa che non potrà farsene nulla, ma prova a stabilire un contatto umano: “Gli ho spiegato che qualsiasi cosa mi avesse detto sulla questione non sarebbe stata ammissibile in tribunale, secondo il Codice di procedura penale vigente”.
Una domanda, quella decisiva: perché, Rainer, perché?
"Rimase in silenzio per alcuni minuti, che mi sembrarono eterni – scrive Zelger nel suo libro di memorie - non avrei mai voluto o potuto costringerlo a incriminarsi con una dichiarazione. Sembrava completamente assente. Era un uomo distrutto. Se ne stava seduto piegato in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa appoggiata tra le mani, sino a quando assunse una postura eretta sedendosi dritto. Fece un respiro profondo e mi sussurrò: "Nessuno può immaginarlo. Negli ultimi tre anni solo mal di testa, mal di testa brutali, come se il mio cranio potesse esplodere da un momento all'altro. E lui, solo lui, ne era responsabile!". Perché lui, gli chiesi. "Con la vittoria di Waldner alle ultime elezioni provinciali, mi era diventato improvvisamente chiaro che da quel momento in poi sarei stato solo il suo burattino, la sua ombra. Non avrei mai potuto diventare qualcosa di politicamente indipendente da lui: tutto era finito per me. Per ogni comunicato stampa o discorso, per quanto stupido, dovevo correre da lui e scriverlo". Ci fu un'altra lunga pausa, che non volli interrompere. Dall'espressione del suo viso, capii che era completamente esausto. Poi riprese: "Sono stato io a spianargli la strada per vincere le elezioni, ma così facendo ho causato il mio suicidio politico". Si teneva di nuovo la testa con entrambe le mani. In quel momento mi è dispiaciuto molto per lui. Poi gli assicurai di nuovo che non avrei condiviso con il giudice una sola parola di ciò che mi aveva appena confidato, e così fu".
Questa è carta straccia, sotto il profilo strettamente giuridico. Ma Zelger, giocando su un crinale molto sottile, ha pescato il jolly: una confessione extragiudiziale con tanto di movente, la sudditanza psicologica dell’assassino verso la sua vittima.
La scheda
L’AUTORE. Paolo Cagnan è un giornalista e scrittore specializzato in cronaca nera e giudiziaria. È vicedirettore allo sviluppo digitale e all’integrazione multimediale per il gruppo editoriale Nord Est Multimedia (NEM). Originario di Bolzano, vive a Padova.
LA CURATRICE. Barbara Biscotti, già curatrice per «La Gazzetta dello Sport» della collana I Signori della Guerra (2021), è titolare delle cattedre di Storia del diritto romano e Istituzioni di diritto romano del corso di laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università di Milano-Bicocca. È autrice di numerosi saggi e monografie di carattere scientifico, nonché di volumi di natura divulgativa a tema storico.
Riproduzione riservata © il Nord Est