Il diavolo probabilmente: l’abstract del libro «Ferro, fuoco e ombre. Il caso Ludwig»

Roberto Fagiolo

Vicenza. È il 20 luglio 1982. Verso le otto di martedì sera, due frati, Giuseppe Lovato di 71 anni e Gabriele Pigato di 65, lasciano il convento di Monte Berico, dove si erge il santuario che domina la città. Le origini della chiesa sono legate a due apparizioni della Madonna a Vittoria Pasini: la prima del 7 marzo 1426, la seconda due anni dopo.

Nelle sue apparizioni la Madonna prometteva la fine della peste che infuriava sulla città e chiedeva che in quel luogo le fosse dedicata una chiesa. Detto, fatto. Quello stesso anno a Monte Berico viene eretta una chiesetta con annesso convento per ospitare una comunità religiosa dedita all’accoglienza dei pellegrini. A questo si dedica ancora oggi la comunità dei Servi di Maria, diventati i custodi del santuario.

E Servi di Maria sono appunto i frati Pigato e Lovato, che quella sera, come ogni sera, dopo aver finito di cenare escono dal convento per fare due passi. Spesso li accompagna un altro religioso, Giovanni Battista De Pretto, ma non stavolta: frate Giovanni Battista, indisposto, è rimasto nella sua stanza.

Il percorso della passeggiata è sempre quello. A sinistra della basilica, scendendo per qualche metro su viale 10 giugno, c’è l’imbocco della salita di via Enrico Cialdini. Una strada isolata e silenziosa, immersa nella quiete, che si arrampica per qualche centinaio di metri prima di confluire in via Alessandro Avogadro di Casanova, nota come ‘stradella del diavolo’. Ad affibbiarle il nome erano stati i custodi del santuario, per il motivo che la strada brulicava di prostitute, cacciate via da Campo Marzio, proprio sotto Monte Berico, dove passeggiavano abitualmente. E dove torneranno qualche anno dopo.

Qua e là sul rilievo erboso che costeggia la strada, sbuca qualche siringa: chissà quante volte le avranno notate fratel Mario e fratel Gabriele, che sempre intenti a chiacchierare, procedono nella lieve oscurità che comincia a scendere tra la strada e il bosco. Salgono per circa cinquecento metri senza fare troppo caso a ciò che si muove intorno a loro, agli scricchiolii dei rami, al fruscio delle foglie scosse dal vento. Continuano a camminare senza immaginare di essere tallonati da ombre che si muovono rapide a poca distanza da loro. Non sanno di essere le vittime prescelte. Finché non avvertono alle loro spalle un improvviso rumore di passi, di voci concitate.

Dall’oscurità filtrano delle figure. Hanno delle sciarpe sul volto. Sicuramente impugnano asce e martelli. Sono rapidi, freddi, decisi. E agiscono con ferocia. Gabriele Lovato, assalito e colpito con il martello alla nuca, muore all’istante per sfondamento del cranio. Giovanni Battista Pigato, percosso sulla fronte, cesserà di vivere dopo cinque ore di agonia all’ospedale di Vicenza.

Pochi secondi

Il tutto si è svolto in un pugno di secondi, il tempo di colpire e sparire, in un soffio. A vedere per primi i due frati distesi sull’asfalto di via Cialdini, immersi in una pozza di sangue, sono due fidanzatini che corrono a suonare al cancello di un convento di suore, a un passo dal luogo del delitto.

Stordisce quella scena.

È spietata, incomprensibile nella sua crudeltà. È orribile quella visione, sbattuta là sulla strada, stretta tra istituti, giardini e alti muri di cinta. Gli inquirenti raccolgono tracce e reperti che andranno analizzati con cura. Sul luogo del delitto si rinviene una mazza di ferro marca Upex, prodotta da una ditta di Padova con un adesivo tagliato a metà sul manico. E c’è dell’altro: un sacchetto per immondizie contenente un martello sempre marca Upex, anche questo con un adesivo attaccato sul manico con al centro la scritta ‘Castro’. Quindi un sacchetto di plastica bianca con la scritta ‘A & 0’ che contiene un altro sacchetto con la scritta ‘Coin’ e un terzo sacchetto al cui interno c’è una scure con manico in legno e due sciarpe di lana.

Gli aggressori hanno lasciato sul posto oltre ai due martelli impugnati per uccidere anche la scure, inutilizzata, anzi, neppure estratta dal sacchetto.

Erano previste tre vittime? Le perizie appurano che i religiosi erano stati aggrediti alle spalle da almeno due persone. Presi alla sprovvista non erano stati in grado di opporre resistenza. Ma erano davvero due gli assassini? Forse qualcuno li ha visti. Federica Rossi Bortolaso, uscita quella sera dal santuario di Monte Berico verso le 19.45, dice agli inquirenti di aver notato tre giovani, tra i 20 e i 25 anni, seduti sul muretto proprio di fronte alla strada dove, poco dopo, era avvenuto il crimine. Uno di loro teneva accanto a sé due borse di plastica, una scura e l’altra bianca, simili a quelle trovate in via Cialdini. Poi passa a descrivere i giovani.

Chi sono gli assassini

Di costituzione magra e altezza tra 1,70-1,75, uno con capelli scuri, mossi, lunghi fino alle spalle; l’altro castano chiaro, capelli lunghi, folta barba e baffi; e infine il terzo, scuro di capelli, pettinato con riga centrale. Un altro testimone, Danilo Lucano, mentre si trova nel giardino della sua casa, in via Cialdini, vede passare da una distanza di dieci metri con andatura spedita, l’uno a breve distanza dall’altro, due giovani, alti 1,65-1,70, di corporatura normale: uno, di età tra i 20 e i 22 anni, con capelli scuri e corti, l’altro, sui 18-20 anni, con capelli biondi o castani chiari, ricci o ondulati, lunghi fino alle spalle.

Si aggiunge quindi la testimonianza di Gianni Mazzini che intorno alle 20.10, da una finestra del secondo piano del convento di Monte Berico, vede i frati, appena usciti dal santuario, avviarsi verso via Cialdini e, a breve distanza da loro, due persone, piuttosto giovani, sedute sul muretto di fronte all’imbocco della via. Due giovani seduti sul muretto vengono notati anche da suor Elisa Peron intorno alle otto di sera.

Nel racconto dei testimoni l’alternarsi tra due e tre aggressori si potrebbe spiegare con una suddivisione dei compiti degli aggressori, tra chi agisce e chi controlla che l’agguato avvenga senza intoppi. Oppure con il fatto che mancando la terza potenziale vittima si poteva fare a meno di un esecutore. Giovanni Battista De Pretto, il frate rimasto in convento quella sera, conferma agli inquirenti l’abitudine dei due confratelli uccisi di fare una breve passeggiata serale, che comprendeva il passaggio per via Cialdini.

Seguiti e spiati

Chi ha ucciso conosceva le loro abitudini. Li aveva seguiti e spiati. Le testimonianze parlano di due-tre giovani, criminali, terroristi o chissà cosa. Stavolta però qualcosa di concreto da mostrare sembra che ci sia. La Questura di Vicenza diffonde gli identikit di due giovani notati dai testimoni nei pressi del luogo del duplice omicidio. Due persone di età compresa tra i 20 e i 25 anni, di corporatura snella.

Il primo, che nella ricostruzione porta un berretto con frontino, ha viso ovale e capelli scuri ondulati. Il secondo barba e capelli lunghi di colore castano chiaro e un cappello sformato in testa. È un primo passo. Ma il nodo vero della questione sono le vittime: due anziani frati. Perché ucciderli e in modo tanto spietato? Esclusa la rapina, si pensa a qualche tipo di vendetta. Forse da parte di una delle varie persone, emarginati, figure problematiche, con cui erano venuti in contatto.

Le ipotesi si aggrovigliano. La domanda resta: ‘In chi si sono imbattuti i due religiosi a pochi passi dalla stradella del diavolo?’. Come di norma in questi casi si scandagliano gli ambienti della droga e della malavita in cerca di un indizio, una confidenza, uno straccio di indicazione. Poi, tre giorni dopo il delitto, lo scenario cambia. Totalmente. Il 23 luglio alla redazione dell’Ansa di Milano giunge una busta, affrancata con due francobolli da 500 lire con il tagliandino ‘espresso’. Il timbro di partenza è ‘Brescia ferrovia’, con data 22 luglio. All’interno un foglio, scritto in caratteri runici.

Firmato Ludwig

Non ci sono dubbi: è Ludwig. Nel comunicato gli estensori scrivono: “Ludwig dopo il rogo di S. Giorgio a Verona ha colpito di nuovo a Vicenza sul Monte Berico, siamo gli ultimi eredi del nazismo, il fine della nostra vita è la morte di coloro che tradiscono il vero dio, gli autoadesivi che alleghiamo combaciano esattamente con quelli applicati sui manici degli strumenti usati. Gott mit uns”. Stavolta i riscontri vengono effettuati con ben altro stato d’animo rispetto ai precedenti episodi. Soprattutto con l’omicidio di Alice Baretta, commesso a poche centinaia di metri dal santuario di Monte Berico, dove erano stati massacrati i due frati Lovato e Pigato.

Si accostano i delitti. Si confrontano le modalità di esecuzione che paiono identiche, mentre sul numero degli aggressori si oscilla dal singolo individuo a tre assassini. Su una cosa non ci sono incertezze: le marche degli attrezzi usati per uccidere coincidono. E sono esatte al millimetro le informazioni sugli adesivi corrispondenti alle parti trovate sul manico dei martelli usati contro i religiosi.

È la prova inconfutabile che gli autori del comunicato sono i killer dei religiosi di Monte Berico. E probabilmente di Alice Baretta. E forse anche degli altri omicidi rivendicati con il comunicato del novembre 1980. Attenzione però. Nel suo ultimo volantino Ludwig oltre a rivendicare l’omicidio dei due frati accenna a un altro episodio, accaduto poco più di un anno prima. È il momento di riesaminare il fascicolo del caso della ‘Torretta’, quel ragazzo ripescato dalle acque dell’Adige…

L’album fotografico

Nella foto di archivio, Marco Furlan e Wolfang Abel a Verona nel 1986 durante il processo
Nella foto di archivio, Marco Furlan e Wolfang Abel a Verona nel 1986 durante il processo. Marco Furlan, il veronese che insieme a Wolfgang Abel aveva dato vita alla formazione neonazista Ludwig, e condannato a 27 anni di carcere, secondo quanto ha appreso l'ANSA, potrebbe tornare definitivamente libero tra circa un mese.

 

Nella foto di archivio, Marco Furlan a Verona nel 1986. Marco Furlan, il veronese che insieme a Wolfgang Abel aveva dato vita alla formazione neonazista Ludwig, e condannato a 27 anni di carcere, secondo quanto ha appreso l'ANSA, potrebbe tornare definitivamente libero tra circa un mese.
Nella foto di archivio, Marco Furlan a Verona nel 1986. Marco Furlan, il veronese che insieme a Wolfgang Abel aveva dato vita alla formazione neonazista Ludwig, e condannato a 27 anni di carcere, secondo quanto ha appreso l'ANSA, potrebbe tornare definitivamente libero tra circa un mese.

La scheda del libro

Si muovono nel buio, agili, silenziosi, rapidi. Raggiungono il loro obbiettivo. E a quel punto nessun dubbio o esitazione. Impugnano il martello, afferrano il punteruolo e lo conficcano nella testa della vittima. Poi sgusciano via. Muore così, a Trento, la sera del 26 febbraio 1983, don Armando Bison. È uno degli omicidi più agghiaccianti della cronaca italiana firmato da una sigla rimasta impressa nella memoria: Ludwig. Simile

per efferatezza ai delitti del mostro di Firenze, con cui condivide il momento storico. E la tipologia: omicidio rituale. Ma a differenza dei delitti del mostro di Firenze, i delitti di cui si tratta hanno dei responsabili, individuati, processati e condannati per omicidio e strage. All’epoca erano due brillanti studenti universitari, che non hanno mai ammesso le loro responsabilità. Sono loro Ludwig? Una serie di indizi oltre che tre sentenze sembrano confermarlo. Ma altri elementi fanno pensare che forse qualcun altro, mai individuato, fosse coinvolto. Dunque cos’era Ludwig? Una coppia di serial killer, un’organizzazione neonazista, una specie di setta? Dopo quarant’anni la vicenda dei delitti di Ludwig, in larga parte indecifrabile, torna in superficie, tra le pagine delle nuove indagini sulla strage di Brescia. E Roberto Fagiolo ne ricostruisce con rigore tutti i dettagli

Roberto Fagiolo

Roberto Fagiolo
Roberto Fagiolo

Ferro, fuoco e ombre. Il caso Ludwig

I Nutrimenti, saggistica

Collana Igloo, pp 208, prezzo 17 euro

Isbn 9791255480662

 

 

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