I fidanzati Trifone Ragone e Teresa Costanza uccisi a Pordenone dieci anni fa
I fidanzati Trifone Ragone e Teresa Costanza uccisi a Pordenone dieci anni fa

Dieci anni fa l’omicidio dei fidanzati che sconvolse Pordenone

Il 17 marzo 2015 la morte di Teresa e Trifone nel parcheggio del palasport. Per il delitto fu condannato l’amico Giosuè Ruotolo. Sul luogo del delitto fiori e peluche testimoniano il ricordo ancora vivo

Giulia Soligon

Dieci anni fa a Pordenone l’omicidio dei fidanzati Teresa Costanza e Trifone Ragone, uccisi a colpi di pistola il 17 marzo 2015 alle 19.47, orario fissato dalla consulenza a quattro mani a firma Paolo Reale e Giuseppe Monfreda.

Ancora oggi sul luogo del delitto, il parcheggio del palasport di via Interna, ci sono fiori e qualche peluche a testimoniare un dolore che ha segnato due famiglie e l’intera comunità pordenonese. Una ferita ancora aperta per la palestra di pesistica dove i due si allenavano.

La pesistica

«Quella sera ero a casa quando è arrivata la telefonata. I nostri due ragazzi sono indimenticabili. Abbiamo voluto loro bene come loro ne hanno voluto a noi». Le parole sono quelle di Mariarosa Flaiban, legale rappresentante della Pesistica Pordenone e vicepresidente della Fipe. Proprio lei che davanti a quel luogo ci passa tutti i giorni.

Giosuè Ruotolo, condannato per l'omicidio dei due fidanzati
Giosuè Ruotolo, condannato per l'omicidio dei due fidanzati

«Sono dieci anni che ci hanno fatto diventare i capelli grigi, non soltanto per la loro morte, dolorosissima, ma anche per quanto successo dopo. Speriamo che da lassù ci vedano e ci mettano una mano sopra la testa. Prego per loro tutti i giorni».

Nelle parole di Mariarosa un ricordo ancora vivo e nitido. «Trifone si stava preparando per diventare campione italiano. Teresa era tanto dolce. Di nascosto portava le torte fatte da lei alle ragazze della palestra», tuttavia «devo ancora capire perché è successo. C’è qualcosa che non riesco a comprendere e quando non si riesce a farlo si resta sempre con un senso di ansia».

L’inchiesta

A inchiodare Giosuè Ruotolo è stata una serie di gravi e convergenti elementi indiziari, raccolti dal nucleo investigativo provinciale di Pordenone, guidato all’epoca dal colonnello Pier Luigi Grosseto, che hanno convinto sia la Corte d’assise di Udine sia la Corte d’assise d’appello di Trieste e infine la Cassazione.

«Parliamo di una raccolta di tutto ciò che poteva essere utili ai fini investigativi in cui sono stati impegnati cinquanta carabinieri per sei mesi», spiega Grosseto, ripercorrendo le tappe più importanti dell’indagine che ha portato alla condanna di Ruotolo, che fece parte del picchetto d’onore che portava a spalla la bara del commilitone ucciso. Delle tante piste seguite, ne restarono in piedi solamente due, una delle quali condusse a Ruotolo.

L'auto, nel parcheggio del palasport di Pordenone, dove sono stati trovati i corpi dei due fidanzati uccisi
L'auto, nel parcheggio del palasport di Pordenone, dove sono stati trovati i corpi dei due fidanzati uccisi

«Con grande capacità investigativa era stata notata la sua autovettura che transitava in una fascia oraria compatibile con quella dell’omicidio su via Interna, che costeggia il piazzale della palestra». Quella sera a catturare il passaggio dell’Audi A3 Sportback fu la telecamera 14bis, che immortalò prima l’auto e 22 secondi dopo il runner Maurizio Marcuzzo, testimone chiave nel processo.

A suggerire agli investigatori la presenza di Ruotolo al parco San Valentino, dove poi sarà ritrovata l’arma del delitto ripescata dal laghetto, fu l’intuito investigativo di un carabiniere, che riuscirà a cogliere in un fotogramma la freccia lampeggiante di un’auto riflessa in una pozzanghera. «In quel frame non si vedeva assolutamente niente se non un piccolo lampo arancione, che indicava che forse quell’auto poteva avere svoltato in direzione del parco. Scandagliato il letto del laghetto, abbiamo trovato prima il caricatore, poi la pistola».

Caso chiuso

«In quel momento abbiamo centellinato le notizie ai media in modo che giocassero anche a nostro favore, per vedere quali erano le reazioni da parte dei sospettati che tenevamo d’occhio. Questo ci è tornato utile soltanto in seconda battuta, perché abbiamo scoperto che con la rivelazione di questi sviluppi c’erano state alcune cancellazioni su telefoni e computer», conclude Grosseto.

Una lunga serie di indizi cui si aggiungono l’alibi non riscontrato, l’attesa nel piazzale giustificabile soltanto con un’imboscata, i messaggi molesti inviati a Teresa tramite il profilo Facebook anonimo, creato assieme alla fidanzata Maria Rosaria Patrone, che andranno a comporre un grande puzzle, che ha convinto i giudici in tre gradi di giudizio, condannando Ruotolo all’ergastolo per il duplice omicidio di Teresa e Trifone. Dieci anni fa.

La difesa: “Riaprire il processo”

«Non siamo lontani da elementi che possano generare una revisione del processo», afferma l’avvocato Danilo Iacobacci del foro di Avellino, che ha assunto la difesa di Ruotolo dopo la conferma dell’ergastolo in Cassazione, riferendosi alla possibilità di ottenere una revisione del processo dopo la bocciatura dei ricorsi presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ancora prima già alla stessa Cassazione. nuova carta Ruotolo è deciso a giocarsi questa nuova carta per dimostrare la sua innocenza, che continua a professare, in maniera ferma e decisa, ma senza trascendere in atteggiamenti e comportamenti fuori delle righe. Per farlo serve portare almeno una prova nuova.

«Qualcosa si sta muovendo. Non ci siamo affatto arresi», spiega Iacobacci, delineando lo scenario dell’iniziativa che insieme con il suo assistito ha deciso di intraprendere. la ricerca «Stiamo lavorando per produrre una qualsiasi prova nuova, fosse anche un testimone non sentito o uno che ricordava male i fatti».

A questa ricerca è legata l’unica possibilità di trovare nuovi spunti che potrebbero permettere di riaprire il processo. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’esprimersi sul caso, ha indicato come unica strada ora percorribile la revisione del processo.

La vita in carcere

Con Giosuè Ruotolo si sente ogni venerdì. «Al telefono, oltre a scriverci per le cose più riservate». Detenuto alla casa circondariale di Padova, l’ex militare di Somma Vesuviana lavora e studia. «Ha già preso una laurea, ora sta intraprendendo un secondo corso in studi umanistici». Indagato nel settembre 2015 e arrestato a marzo 2016, il 6 marzo di quell’anno viene eseguita la custodia cautelare in carcere dai carabinieri del nucleo investigativo di Pordenone.

A firmare l’ordinanza è il gip Alberto Rossi. Iacobacci descrive Ruotolo come un «detenuto modello. Pur essendo uno di quelli che si professano innocenti anche a dieci anni dai fatti, non manifesta intemperanze. Anzi. Il suo è un percorso di inserimento pieno nel penitenziario, dal punto di vista scolastico, lavorativo e sociale. Accetta la detenzione, nonostante si professi innocente. Mostra una forza d’animo non comune».

I permessi

Da nove anni in cella, potrebbe già ottenere permessi d’uscita, ma anche su questo Ruotolo sembra andare controcorrente.

«Nella condizione in cui si trova ora avrebbe già potuto chiedere e ottenere permessi, ma ha scelto di non farlo. Punta a essere riconosciuto prima o poi innocente. Non vuole godere di permessi d’uscita, ma di una pronuncia di assoluzione. Ne fa anche una questione di rispetto, sembra strano a dirsi, dei familiari dei defunti».

I ricordi delle mamme

«Per noi è come se fosse sempre il primo giorno». A ricordare la figlia è Carmelina Parello, la mamma di Teresa Costanza.

«Uno di questi fine settimana verremo sicuramente a Pordenone», rivela la donna. Ogni anno la famiglia di Teresa arriva in città per lasciare un pensiero per la figlia. «Ci manca tantissimo. Per noi è ancora nel nostro cuore. Parliamo di lei, ecco perché è come se fosse sempre presente. Tuttavia, non è più una vita serena come una volta. È un altro tipo di vita oggi».

Teresa con la madre si sentiva tutti i giorni e così era stato anche quel giorno. «Di solito ci sentivamo ogni sera.

Quel giorno, però, ci eravamo sentite al mattino, quando ci aveva chiamato, e poi di nuovo nel primo pomeriggio», continua Carmelina ricordando le ultime parole scambiate con la figlia.

A convivere con il dolore da tanti anni è anche Eleonora Ferrante, mamma di Trifone Ragone, per la quale nell’immediato non è previsto una visita a Pordenone, ma non esclude più avanti. Le lacrime riaffiorano con i ricordi.

«È come se fossero ancora vivi. Cerco di pensare che non sono morti, ma che sono presi dalle loro cose e stanno bene. Eternamente giovani».

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