La facciata di palazzo Carciotti con le statue e la cupola
La facciata di palazzo Carciotti con le statue e la cupola

Carciotti: il mercante greco e l'iconografia del suo palazzo

Citato da Casanova nel suo reportage, giunse a Trieste nel 1771 o nel 1775. Statue allegoriche neoclassiche indicano i valori che guidarono la sua vita

Paolo PossamaiPaolo Possamai

Nativo del Peloponneso, Demetrio Carciotti giunse a Trieste da Smirne nel 1771 o 1775, attratto dal vitalismo economico della città a seguito della patente di porto franco rilasciata da Carlo VI. Fece in breve tempo fortuna.

Dall’orazione funebre, tenuta dal Governatore della comunità greco-ortodossa in suo onore nel 1819, apprendiamo che Carciotti era «uno spartano austero in mezzo al fasto della Persia».

Il reportage triestino di Giacomo Casanova aggiunge: «Il Mercante il più atto e il più solido ch’io giudico per lo smercio de’ panni Waldstein nel Levante è Demetrio Carciotti. Questo ha tutte le nozioni e le relazioni possibili in Costantinopoli, Smirne, Alessandria, ed ancora nell’Affrica, cioè Tunisi in principalità».

Morì nel 1819, all’età di 78 anni, senza lasciare eredi diretti e avendo disposto proseguissero anche dopo la sua scomparsa le varie forme caritative perseguite in vita.

Occorre tratteggiare il profilo di Carciotti per comprendere il senso e gli obiettivi impliciti di un palazzo propriamente non tanto “di rappresentanza”, ma piuttosto “di rappresentazione”.

Illustra infatti, con il suo repertorio di statue e bassorilievi, la storia e i valori del committente. E costituisce il capostipite del Neoclassico a Trieste e della sua drammaturgia urbana.

Palazzo Carciotti è opera dell’architetto Matteo Pertsch, nato nel 1769 a Buchhorn, cittadina sulle sponde del lago di Costanza, odierna Friedrichshafen. A Trieste, Pertsch condusse pressoché per intero il suo tragitto, morendovi l’11 aprile 1834.

Venne convocato da Carciotti a Trieste nel 1797, assieme allo scultore vicentino Antonio Bosa, con un gesto che lascia stupefatti, perché il mercante affidò la sua straordinaria impresa a due artisti molto giovani. Bosa in particolare aveva 20 anni.

Il cantiere Carciotti appare come una sorta di calamita per uno stuolo di artisti. Al seguito di Antonio Bosa sono impegnati tanti altri scultori veneti emuli di Canova, tra cui Bartolomeo Ferrari e Domenico Banti, e poi si succederanno Luigi Zandomeneghi e il figlio Pietro, Francesco Bosa (figlio di Antonio), Antonio Bianchi.

Se Bosa testimonia la cultura artistica veneziana, con la chiamata di Pertsch irrompe a Trieste la grande scuola d’architettura milanese. In particolare, Pertsch interpreta la lezione dell’architetto di corte Giuseppe Piermarini.

Possiamo supporre che, rompendo la consuetudine di servirsi di capimastri locali anche per la progettazione, Carciotti abbia in certo qual modo naturalmente cercato l’interprete delle proprie aspirazioni nella più vitale città italiana degli Asburgo. A Milano, appunto, il mercante greco ha inviato un proprio fiduciario con il compito di individuare «un uomo di abilità e di gusto, per eriger la grandiosa sua fabbrica al canal Grande».

Pertsch sviluppa una maestosa facciata, segnata da un avancorpo lievemente aggettante e da una loggia poco profonda e però magniloquente per l’impiego di colonne giganti d’ordine ionico. Secondo Henry Russell Hitchcock «con il suo portico rialzato e la piccola cupola, Palazzo Carciotti è uno dei più imponenti e riusciti edifici italiani degli inizi del secolo».

Carciotti non è solo l’orgoglioso committente della sua «grandiosa» casa-fondaco, ma concorre anche al programma decorativo, che ricomprende, assieme alle statue allegoriche, anche decine di riquadri, metope e lunette a rilievo largamente riferibili alle arti e alle scienze. Pentagramma denso di note, che consegna all’uomo di impresa il dovere di promuovere e tutelare la cultura, oltre a indicarne il sistema di valori. Carciotti insomma candida se stesso a interprete e modello della società triestina.

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La “grandiosa fabbrica” costituisce un episodio esemplare sin dalla scelta del lotto in cui fu edificato. Lotto d’angolo, un intero isolato con lati di estensione pari a 40 e 100 metri, prospiciente il mare per la monumentale facciata principale e, sul lato lungo, il porto canale in cui maturarono gli strepitosi primordi dello scalo triestino. Oltre all’abitazione del mercante, ricavata al piano nobile nella sezione affacciata sul mare, sedici alloggi nei piani superiori e poi stalle, 18 magazzini, rimesse.

Il prospetto maggiore è teso ad accogliere e sorprendere chi arriva a Trieste per nave. Sul fronte verso il golfo, al di sopra del loggiato sorretto da sei colonne ioniche, spicca una balaustra con altrettante statue realizzate da Antonio Bosa. Statue che appaiono come polene infisse alla prua di una nave rivolta al mare aperto. Per dirla con Claudio Magris, come la polena «nella nostalgia marinara è l’anima della nave», allo stesso modo il concerto scultoreo sistemato alla sommità del suo palazzo da Carciotti indica l’anima di quelle mura e la nostalgia per la Grecia natìa di chi quelle mura volle erigere.

Passiamo ora in rassegna le voci dell’antologia volta al mare. Da sinistra, sulla scorta della “Iconologia” di Cesare Ripa, il racconto mette in scena la Mercatura, la Giustizia, l’Onore, la Fama, l’Ingegno, l’Abbondanza. La frase potrebbe suonare in questo modo: la mercatura lungimirante e di successo contempla giustizia, onore, fama, ingegno, generosità.

Di ogni statua troviamo riscontro nel regesto di Ripa. Un consimile impegno pubblico viene allusivamente esposto pure nel tamburo della cupola, adorna di una serie di metope di Bosa dedicate ad Architettura, Scultura e Pittura, Arti edili, Scienze, Astronomia, Editoria, Urbanistica, Musica, Commedia e Tragedia.

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Lo schema compositivo ideato per il prospetto posteriore è limitato a quattro statue e due vasi acroteriali. Le due statue centrali evocano Mercurio e Nettuno, opere firmate sul basamento rispettivamente da Bartolomeo Agostini e da Antonio Bosa.

Osserviamone l’atteggiamento: il dio dei commerci e il dio del mare si indicano l’un l’altro, anzi in qualche modo si tendono la mano e pare che uno non viva senza l’altro. Di assai ardua interpretazione appaiono invece le due figure poste ai margini della composizione, date anche le degradate condizioni di conservazione. Ma possiamo esprimere una congettura, indirizzata alle figure di Giasone, eroe degli Argonauti riemersi alle foci del Timavo, e Ulisse.

Di Antonio Bosa sono pure le statue colossali di Ercole e Minerva (Atena) poste entro due nicchie ai lati dell’atrio verso il mare. La potenza e la Sapienza.

In cima allo scalone monumentale ci sono poi tre statue raffiguranti la Pittura, la Scultura e l’Architettura: torniamo a un’assunzione di responsabilità sul piano culturale da parte di un uomo eminente negli assetti sociali e politici di Trieste.

La sala rotonda della cupola, sorretta da sedici colonne monolitiche di marmo bianco, è ornata nei sovraporta da bassorilievi con scene tratte da Omero, accompagnati dagli affreschi monocromi eseguiti attorno al 1804 da Giuseppe Bernardino Bison. Pittura e scultura intenzionalmente connesse. Chissà se, nell’evocazione delle vicende della guerra di Troia, Carciotti pensava alla propria condizione di esule, alla navigazione della propria vita. Demetrio come Ulisse. 

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