Il costruttore di immagini che cambiò il cinema: il lascito di Enrico Medioli
Il 17 marzo 1925 nasceva lo sceneggiatore che collaborò con i più grandi registi italiani, come Sergio Leone e Luchino Visconti. La nipote Francesca: «Visconti dopo ogni film gli regalava un ciondolo per la catena dell’orologio»

Riservato e geniale, bello e coltissimo, lo sceneggiatore Enrico Medioli il 17 marzo, avrebbe compiuto cent’anni.
Nato a Parma, una parentesi milanese (a casa dell’architetto Gio Ponti) e un periodo in sanatorio a Davos (come Thomas Mann), vissuto a Roma cinquant’anni, scomparso tra le sue camelie a Orvieto nel 2017, Enrico Medioli ha attraversato il Novecento lasciando con la sua raffinata scrittura i capolavori di quello che lui stesso definiva “l’età di Pericle del cinema italiano”.
È stato lo sceneggiatore di tutti i film di Luchino Visconti, tranne “Lo straniero” e “Morte a Venezia”, ha collaborato anche con gli altri grandi registi italiani, come Mauro Bolognini, Liliana Cavani, Vittorio Caprioli, Pasquale Festa Campanile, firmando l’eternità culturale con Sergio Leone, di “C’era una volta in America” (suo il celebre scambio di battute “Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?”. “Sono andato a letto presto”, che è un modo per citare l’incipit de La Recherche), o l’eternità estetica di un Alain Delon, stretto nel suo cappotto di cammello, in “La prima notta di quiete”, il film del suo amico Valerio Zurlini.

In occasione di questo anniversario, ne parliamo con la nipote che vive a Udine, e che lo zio definiva amorevolmente “la vestale dei ricordi”.
Francesca Medioli, storica di genere, docente a Reading in Inghilterra e ora a Ca’ Foscari a Venezia, dieci anni fa, nel 2015, in occasione dei novant’anni dello zio, insieme allo storico Roberto Mancini ha curato un libro “Il costruttore di immagini. Enrico Medioli sceneggiatore”, edito dalla fiorentina Aska, ricco di testimonianze celebri come quelle di Irene Bignardi, Franca Valeri, Suso Cecco D’Amico, Adriana Asti, Umberto Orsini.
Il suo lavoro curatoriale rappresenta un atto d’amore nei confronti di un intellettuale che ha cambiato il cinema italiano per sempre.
«Mio padre è mancato quando non avevo ancora venticinque anni. Lo zio Enrico è stato per me un secondo padre. Conservo tutte le nostre lettere, anche se purtroppo molte di quelle allo zio e dello zio, non a me, le ha bruciate lui stesso, quando ha affittato la sua casa di Roma. Lo zio era riservato. Riservata la sua omosessualità, il suo legame con Maurizio Chiari, compagno di scuola e di tutta la vita. Si sentiva capito in famiglia, ed è forse per questo che ha sempre molto amato i suoi genitori».

Cosa le manca di questo uomo dall’animo elegante, che ha intrecciato la letteratura al cinema?
«Tutto. La sua intelligenza. Il suo sguardo. Il rimettere le cose in prospettiva. Eravamo molto uniti, ho vissuto a lungo a Roma, abbiamo fatto molte cose insieme, anche grandi viaggi. Mi ha lasciato la sua collezione de La Pléiade di cui era gelosissimo. Visconti dopo ogni film insieme gli regalava un ciondolo in oro per la sua catena dell’orologio, ad esempio un cigno per “Ludwig”, i guanti da boxe per “Rocco e i suoi fratelli”. Lo zio li ha donati a me».
Poco spazio per raccontare una vita così intensa, nel cuore del cinema. Il rapporto d’amicizia profonda con Visconti, con Zurlini, l’amica del cuore Franca Valeri, e la sua mentore, Suso Cecchi d’Amico.
«Lo zio nasce da una famiglia di costruttori di Parma, ha come professore Attilio Bertolucci, che gli parla di Dante e di John Ford. Va a Milano per diventare architetto, ma poi si ammala di tisi e finisce a Davos, in Svizzera, dal’48 al’50, dove incontra amici inglesi che tali saranno per tutta la vita. È lì che migliora le lingue, tanto che i suoi primi lavori poi a Roma saranno traduzioni di dialoghi per il doppiaggio. La sua prima sceneggiatura sarà con Suso Cecchi D’Amico, conosciuta attraverso Luchino Visconti, “Il diavolo nella bottiglia”, da un racconto di Stevenson, un film mai girato».
Suo zio lavorò per il cinema, ma anche per il teatro, per la lirica, per la televisione. Produzioni importanti. Qual è secondo lei il film dell’anima?
(ci pensa un po’) «Ha amato molto “C’era una volta in America”, realizzato in otto anni. Ma credo che, oltre a “Gruppo di famiglia in un interno” scritto appositamente per Visconti, malato, il suo film del cuore, per cui ebbe una Nomination agli Oscar, perché davvero “molto Medioli” sia “La Caduta degli dei”.
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