Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 6 febbraio
Arriva in sala “The Brutalist” l’opera fiume di Brady Corbet candidata a 10 Oscar. Gli anni d’oro del porno italiano nel film di Giulia Steigerwalt “Diva futura”. Per i romantici c’è “We Live in Time”. Sonia Bergamasco “incontra” la miglior attrice di sempre nel doc. “Duse – The Greatest”
“The Brutalist” di Brady Corbet lascia il segno: titanico, squilibrato, concettuale e seducente. Adrien Brody gigantesco nella sua foga autodistruttiva. Vincerà tutto (o molto) agli Oscar?
Pietro Castellitto è Riccardo Schicchi in “Diva futura” di Giulia Steigerwalt: ritratto di un’epoca e di una utopia pornografica.
Andrew Garfield e Florence Pugh sono i protagonisti del dramedy romantico “We Live in Time”: tutto già visto.
Affascinante il documentario su Eleonora Duse firmato da Sonia Bergamasco: “Duse – The Greatest” esalta un mito inafferrabile.
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THE BRUTALIST
Regia: Brady Corbet
Cast: Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pierce, Stacy Martin
Durata: 215’
Dopo “L’infanzia di un capo”, miglior opera prima e miglior regia nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema nel 2015 e “Vox Lux” del 2018, Brady Corbet firma il suo film più ambizioso (anche nella durata: 3 ore e mezza in 70 mm con un intervallo di 15 minuti come i peplum di una volta).
“The Brutalist” ha già vinto un Leone d’argento alla regia a Venezia e, ora, è candidato a 10 Oscar (ovviamente pesanti: film, regia, attore protagonista, attori non protagonisti e sceneggiatura originale).
László Tóth (Adrien Brody) è un architetto ebreo-ungherese, scampato ai campi di concentramento ed emigrato negli Stati Uniti dove ricomincia una nuova vita sotto l’ala protettiva di un mecenate (Guy Pearce) per realizzare un mastodontico progetto secondo i dettami del “brutalismo” la corrente architettonica nota per l’uso di materiali ruvidi come il cemento a vista.
Raggiunto dalla moglie (Felicity Jones) e dalla nipote, Tóth rivive in loro il passato traumatico che altri migranti (come il cugino Attila), invece, hanno dimenticato in nome di una americanizzazione e di un capitalismo violenti, realizzando, così, tra sensi di colpa, vergogna e ossessioni, la fine di un sogno di cui restano solo le vestigia geometriche dei suoi lavori.
La prima parte del film (che prende le mosse dal romanzo “La fonte meravigliosa” della scrittrice Ayn Rand, già portato sullo schermo da King Vidor nel 1949) è quasi impeccabile nella riflessione tra identità e architettura (con una sequenza iniziale che fa venire i brividi nella sua insolita prospettiva che contiene già tutto il film), in quel modellare (ed esorcizzare) il presente attraverso il passato.
Dopo aver costruito fondamenta così solide e coerenti, Corbet non riesce a frenare la propria foga creativa: nel secondo atto la sua costruzione sembra quasi implodere nella denuncia della società americana (che era già molto evidente), del suo marciume, della sua violenza (che assume i contorni di uno stupro fisico e dell’anima), perdendosi in digressioni oniriche e in un finale paradossalmente monco (considerata la durata del film) che, liquidata la relazione malata con il magnate in un modo quasi sconcertante, si conclude nelle forme di un finto resoconto d’archivio ambientato a Venezia durante la Biennale di Architettura.
Se “Il Petroliere” è più di una suggestione (anche nella colonna sonora sinistra, gravida di sventura, con quel rumore bianco di violenza strisciante), la voracità stilistica di Corbet (che sceglie uno sguardo sgranato e fuori fuoco a puntellare lo spaesamento del protagonista e, in generale, di tutti coloro che l’America ha accolto, limitandosi a tollerarli, mai ad accudirli veramente) rischia di fagocitarlo, quasi in antifrasi con l’essenzialità delle forme teorizzate da Tóth. Resta, comunque, un’opera di grande impatto che seduce e lascia il segno.
Voto: 7,5
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WE LIVE IN TIME – TUTTO IL TEMPO CHE ABBIAMO
Regia: John Crowley
Cast: Florence Pugh, Andrew Garfield
Durata: 107’
È un cinema con poche idee. Non bastassero i sequel, i prequel e i reboot, gli spin-off e tutto il campionario che gemma da saghe e altri franchise, anche i film “originali” sembrano, ormai, la copia sbiadita di qualcosa di già visto mille volte.
È (anche) il caso di “We Live in Time” di John Crowley, romantic comedy (con risvolti drammatici) che mette insieme due star del momento -Andrew Garfield e Florence Pugh - come prima avevano fatto (tanto per citare due titoli di inizio 2000) «Sweet November» (Keanu Reeves e Charlize Theron) e «Autumn in New York» (Richard Gere e Wynona Ryder).
Tobias e Almut si incontrano (anzi si scontrano) di notte ed è (quasi) amore a prima vista. Lui è reduce da una separazione sofferta, è mite e organizzato, appunta tutto su un blocco e spesso tiene al collo un cronometro.
Lei è una chef molto creativa e libera, ha la competizione nel sangue (da una ex pattinatrice su ghiaccio) e non ha filtri. In questa loro diversità si amano, affrontano un cancro insieme, hanno una bambina che è quasi un miracolo, ma la malattia ritorna e non fa sconti.
L’ennesima variazione sul tema “amore e destino” (che si confronta con il tempo) procede per le consuete tappe (innamoramento – prime incomprensioni – cadute – rinascite – tragedia finale) con qualche deviazione spettacolare (il parto in un bagno di un’area di servizio), l’occhiolino alle mode del momento (la gara stile “Masterchef” cui Almut partecipa) e una scrittura sin troppo sofisticata (con continui dialoghi che esorcizzano la morte, mai davvero credibili).
Per arrivare alla ovvietà del titolo, “un carpe diem” aggiornato che ci invita a vivere il “qui e ora” perché “di doman non v’è certezza”. Garfield sembra la versione romantica e un po’ tonta di Peter Parker prima di diventare “Spider Man”; molto meglio il broncio british della Pugh. Ma non basta il montaggio non lineare (con la storia d’amore che procede avanti e indietro nel tempo) per dare una parvenza di novità a un film già visto. (Marco Contino)
Voto: 5
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DUSE – THE GREATEST
Regia: Sonia Bergamasco
Cast: Sonia Bergamasco, Valeria Bruni Tedeschi, Ellen Burstyn, Helen Mirren, Fabrizio Gifuni
Durata: 93’
È un documentario creativo e immaginifico quello firmato da Sonia Bergamasco e dedicato a Eleonora Duse, la più grande attrice del mondo. “Duse, The Greatest” non può, infatti, che procedere per suggestioni e indizi, ricordi e testimonianze per lo più indirette.
Perché della “Divina” esistono solo foto e un film muto “Cenere” (l’unico da lei interpretato, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda e conservato dalla Cineteca del Friuli): persino la sua voce registrata da Edison è andata perduta in un incendio.
Come se il mito non potesse essere afferrato: Attilio Bertolucci la definirebbe “assenza, più acuta presenza”.
Perché Eleonora Duse recitava senza recitare, era oltre la tecnica stessa, era il gesto assoluto, la testa sempre alta, le dita appoggiate sul mento nell’estensione di un pensiero assoluto, in una posta statuaria straordinariamente dinamica.
Sonia Bergamasco ne è rimasta incantata e in questo suo documentario viaggia nel tempo e nello spazio alla ricerca della grande attrice ma, soprattutto, di una grande donna: dalla natia Vigevano a Chioggia, città d’origine dei genitori dell’attrice; da Venezia (dove si trova la Fondazione Cini che conserva la collezione più ampia e completa di documenti sulla sua vita e la sua arte) a Parigi, dal teatro Valle di Roma a Pittsburgh dove morirà durante la sua tournée americana, fino ad Asolo, il luogo tanto amato sulle colline trevigiane davanti al Monte Grappa dove volle essere seppellita e dove ancora oggi riposa nel cimitero di Sant’Anna.
Il documentario segue le orme pioneristiche di una diva che divenne tale senza volerlo essere, cresciuta in povertà e, per questo, attenta osservatrice della realtà (durante la Prima Guerra Mondiale andrà spesso a trovare i soldati nelle retrovie).
Agli albori di un femminismo sempre e comunque raccontato da uomini (Tolstoj con “Anna Karenina”, Flaubert con “Madame Bovary”), fu, di fatto, la prima donna impresaria della storia alla guida di una propria compagnia che la venerava, come la adoravano gli uomini della sua vita.
Sposata a Tebaldo Marchetti (da cui avrà la sua unica figlia Enrichetta), se ne separerà quasi subito per stringere, prima, un legame intenso con Arrigo Boito e, quindi, con Gabriele D’Annunzio, in una relazione passionale e tormentata entrata nell’immaginario collettivo. Attraverso le lettere scritte da Eleonora Duse, le testimonianze di studiosi e di grandi artisti (da Visconti a Lee Strasberg che la videro in scena o Helen Mirren ed Ellen Burstyn per cui è stata fonte di ispirazione), Sonia Bergamasco prova a condensare questa figura fantasmatica in gocce di presenza: l’amicizia e la rivalità storica con Sarah Bernhardt, l’ammirazione di Charlie Chaplin, di Marilyn Monroe e del grande riformatore del teatro Gordon Craig, il gesto impercettibile di una mano morente nella rappresentazione de “La signora delle camelie”, la fondazione della Casa delle attrici come modello culturale e professionale e, infine, quell’unica apparizione al cinema nel 1916 che è anche la sublimazione della sua arte. Eleonora Duse era, infatti, ammaliata dal nuovo linguaggio cinematografico ma ne aveva anche timore. Nel film, quando appare in tutta la sua naturalezza, con i capelli bianchi spettinati, quasi si nasconde dalla cinepresa, come per rimanere nell’ombra, eppure imprimendo una forza irresistibile all’immagine, in un lavoro di sottrazione ancora sconosciuto all’epoca, negazione stessa della gestualità teatrale che l’aveva resa grande, il “Sacro Gral della recitazione”.
Quindi, quasi come un passaggio di testimone, Sonia Bergamasco raccoglie le parole di Valeria Bruni Tedeschi che la interpreterà nel nuovo film di Pietro Marcello (“Duse”, di prossima uscita, che, come il documentario, è stato finanziato dalla Regione Veneto con il sostegno della Fondazione Veneto Film Commission).
Un altro modo per stringere tra le mani un mito “pesante” eppure leggerissimo, capace di ispirare ancora tutte le attrici del pianeta e, allo stesso tempo, destinato a sparire portato via dal vento, come recita una didascalia di “Cenere”: una polvere che, dissolvendosi, lascia tracce indelebili del proprio passaggio. (Marco Contino)
Voto: 7
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DIVA FUTURA
Regia: Giulia Louise Steigerwalt
Cast: Pietro Castellitto, Barbara Ronchi, Denise Capezza, Tesa Litvan, Lidija Kordic
Durata: 120’
Ricordate Moana, Cicciolina, Eva Henger? Sono state tutte interpreti di una stagione di rivoluzione culturale della sessualità, che aveva però un unico regista, Riccardo Schicchi.
A lui e alla sua agenzia è dedicato “Diva Futura”, in concorso all’ultima Mostra del cinema (ma il film in sala è stato completamente rimontato), diretto da Giulia Louise Steigerwalt, alla sua seconda prova dopo “Settembre” (2022).
Schicchi cercò di trasformare l’utopia hippie dell'amore libero nel porno, superando il filone soft di supplenti e dottoresse, cuginette vogliose e zie procaci. Così ragazze normali diventano dive ed entrano nelle case degli italiani grazie alle televisioni private e ai videoregistratori, con il neologismo di pornostar.
Il film, che si basa sulle testimonianze della segretaria storica dell’agenzia, Debora Attanasio, del marito di Moana Pozzi (scomparsa per un tumore fulminante a 33 anni, nel 1994) e della stessa Henger, racconta per piani incrociati e punti di vista diversi un pezzo di storia d’Italia, quando Ilona Staller, detta "Cicciolina", fondò il Partito dell'Amore ed entrò in parlamento con i Radicali, mentre Moana Pozzi si candidò a sindaco di Roma.
Il tutto tra sequestri di materiale e denunce per sfruttamento della prostituzione, che portarono Schicchi a una condanna a quattro anni poco prima della sua morte, a nemmeno 50 anni, nel 2012.
«Quella di Schicchi era una famiglia, con le sue gelosie e i suoi amori, la sua idea di porno era gioiosa, rivisto oggi fa sorridere nella sua ricerca catartica, priva di violenza», ha spiegato la regista Steigerwalt. «Oggi, invece, il porno ha una violenza capillare, offre un modello pericolosissimo, denso di ripercussioni nella società».
Pietro Castellitto, che nel film è Schicchi mentre Barbara Ronchi è la sua assistente Debora, ricordava in sede di presentazione alla Mostra, un dato personale: «quel mondo si poneva delle domande e si dava una risposta liquida, oggi l’unico interrogativo che internet ti pone è se sei maggiorenne per entrare in YouPorn, io ho barato da quando avevo 12 anni”».
Il film segue la parabola di Schicchi, mostrando come la linea dell’agenzia fosse di essere amorale, non immorale, come recitava il mantra del patron. Se il film regge bene nella descrizione di caratteri e vicende, manca invece in quei legami socio-politici in cui l’azione del team di Diva Futura fu dirompente, con la presenza in parlamento, ma anche nelle trasmissioni Mediaset e Rai, ospiti quotidiane di programmi di intrattenimento e talk-show.
In questo “Diva futura” resta in superficie, accenna, evoca con voci di telegiornali e spezzoni di interviste: si poteva fare di più, ma la regista ha preferito restare su un registro in bilico tra dramma e commedia, perché «la storia aveva una leggerezza sua e si può parlare di cose serie anche con ironia» (Michele Gottardi).
Voto: 5.5
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