Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 20 marzo

Identità letteralmente deformate nel film di Aaron Schimberg “A Different Man”. Barry Levinson dirige un “mafia movie” con un doppio Robert De Niro. Il calcio romantico dei Manetti Bros. in “U.S. Palmese”. “Berlino, estate ‘42” di Andreas Dresen racconta una storia vera di oppositori del nazismo. Ménage à trois al tempo del Covid nel film di Stefano Sardo “Muori di lei”

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "A different man"
Il film "A different man"

Un po’ favola nera, un po’ allucinazione. “A Different Man” riflette sull’identità e la sua crisi attraverso la metafora di un uomo (Sebastian Stan) dal volto deforme. Ma è una trappola vestita da film d’autore.

Dopo dieci anni, Barry Levinson torna a dirigere un film per il cinema. “The Alto Knights – I due volti del crimine” segue le vicende di due dei più noti boss della criminalità organizzata di New York, Frank Costello e Vito Genovese (entrambi interpretati da Robert De Niro)

“U.S. Palmese” farà sorridere i nostalgici di un calcio romantico. I Manetti Bros. raccontano la favola di una società dilettantistica portata in trionfo da un fuoriclasse francese, bisognoso di ripulire la propria immagine di campione viziato e svogliato. Godibile.

“Berlino, estate ‘42” (dirige il tedesco Andreas Dresen) riesuma la storia vera di Hilde e Hans Coppi, militanti dell' “Orchestra rossa”, gruppo di oppositori al nazismo nei primi anni della guerra.

Scamarcio, Giannetta e Garriga sono i protagonisti di “Muori di lei” di Stefano Sardo, triangolo amoroso al tempo della pandemia. Una infinità di cliché, tra tragedia, commedia e thriller. Ma chi ha voglia di ricordarsi del Covid?

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A different man

Regia: Aaron Schimberg

Cast: Sebastian Stan. Renate Reinsve, Adam Pearson

Durata: 112’

 

Un gioco di specchi, rifrazioni e distorsioni. Un po’ favola nera, un po’ allucinazione. Per raccontare l’identità e la sua crisi, maschere sopra altre maschere: chi siamo e chi vorremmo essere? Fino alla consapevolezza finale: ciò che abbiamo desiderato essere fa a pugni con la natura immutabile del nostro io più profondo.

In “A Different Man” Aaron Schimberg mette in scena questa teoria attraverso la storia di Edward (Sebastian Stan, al suo secondo ruolo importante dopo il giovane Donald Trump in “The Apprentice”), attore affetto da una fibromatosi che ne deturpa il volto e che lo ha reso insicuro e solitario.

La sua vicina di appartamento, Ingrid (Renate Reinsve), risveglia in lui sentimenti sopiti ma, soprattutto, lo coinvolge in una pièce teatrale sul dramma della sua deformità. Intanto Edward si è sottoposto a una cura che, miracolosamente, gli regala un nuovo volto senza più fibromi e una nuova identità (si fa chiamare Guy), grazie alla quale conquista Ingrid e prende il posto del (creduto) defunto Edward nello spettacolo.

Ma quando, per caso, si materializza Oswald (Adam Pearson: attore inglese, affetto da fibromatosi anche nella vita reale) che, nonostante la malattia, è esattamente ciò che Edward avrebbe voluto essere (simpatico, baldanzoso e determinato), il cervello di Guy va in cortocircuito.

L’approccio di Schimberg è carsico e fastidiosamente concettuale: il suo sguardo scende sottoterra dove si annida la mostruosità - non quella fisica di Edward ma, in generale, quella umana della società, di Guy ma anche di una Ingrid che non è esattamente ciò che sembra - per poi risalire in superficie, apparentemente mondato dallo squallore. Ma, ovunque, ci sono specchi a ricordare che la fonte di quell’acqua è pur sempre torbida e terrosa.

Schimberg gioca con la dicotomia maschera/anima e ne mostra lo scollamento, ma lo fa in modo quasi volgare, morboso, attraverso una spettacolarizzazione che flirta con una autorialità esibita. Disumanizzando la riflessione di un David Lynch (The Elephant Man) e replicando (male) l’inquietudine identitaria di un Kaufmann, il regista, in fondo, non racconta nulla di nuovo, finendo per agglutinare insieme tante suggestioni già viste in una matassa “a effetto” sin troppo artificiosa.

Su temi analoghi (identità, apparenza), decisamente più efficace e asciutto il norvegese “Sick of Myself” di Kristoffer Borgli. (Marco Contino)

Voto: 5

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Alto Knights – Le due facce del crimine  

 

Regia: Barry Levinson

Cast: Robert De Niro

Durata: 123’

 

Il film "Alto Knights – Le due facce del crimine"
Il film "Alto Knights – Le due facce del crimine"

Se per caso pensate che il binomio Roberto De Niro – gangster & mafioso, sia un po’ obsoleto, potete sempre provare a vedere come vada con due boss al posto di uno. Perché in “Alto Knights – Le due facce del crimine” Robert De Niro impersona Frank Costello e insieme il suo acerrimo nemico, Vito Genovese, con cui divise prima un’amicizia nata in strada e nelle prime imprese banditesche e poi il racket, dapprima con l’alcool del proibizionismo e poi la droga dagli anni Cinquanta.

Il regista Barry Levinson (“Good Morning, Vietnam”, “Rainman”, “Sleepers”, tra gli altri) era assente da qualche anno dagli schermi e vi torna con un progetto da lui caldeggiato da tempo e con uno dei suoi attori preferiti (assieme a Dustin Hoffman), per raccontare la storia del rapporto tra i due, dalle origini fino al ritiro dalle scene di Costello, salvo per miracolo dall’agguato di un sicario mandato da Genovese (morirà invece nel suo letto, a 82 anni, nel 1973) e all’arresto prolungato del rivale, che muore in carcere, nel 1969.

Ma la storia, pur ben montata e ben scritta, mostra una malinconia di maniera e una lunga carrellata di archetipi di genere, che sviliscono nei luoghi comuni e nelle citazioni più ampie dal Sergio Leone di “C’era una volta in America” ai molti Scorsese d’autore.

Il racconto di Costello che da vecchio, negli ultimi anni della sua vita, ricorda le vicende vissute, attraverso la voce fuori campo, appesantisce il ritmo di un film su Cosa nostra che già di per sé è un ossimoro: ovvero si parla tanto e si spara poco.

L’intento di Levinson è abbastanza evidente: rispetto ai gangster di oggi quelli di ieri erano gentiluomini, a parte qualcuno che infatti era emarginato, anche se potente. E l’America era un paese talmente aperto e democratico da far fortuna anche a ragazzi di strada semianalfabeti e con poca conoscenza dell’inglese, fino a farli entrare nella politica e nel glamour.

Un intento nostalgico, nemmeno troppo condivisibile, che tuttavia, in ogni caso, appesantisce il film e lo rende un prodotto poco più che televisivo, nel senso dell’assenza di spessore e di sguardo complessivo. (Michele Gottardi)

Voto: 5

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U.S. Palmese

Regia: Manetti Bros.

Cast: Rocco Papaleo, Blaise Afonso, Giulia Maenza, Max Mazzotta

Durata: 120’

Il film "US Palmese"
Il film "US Palmese"

 

I Manetti Bros., dopo aver attraversato i generi, parodiato i film di camorra, materializzato fumetti, si divertono a realizzare una romantica parabola calcistica (ma prima di tutto umana), ibridando commedia (anche quella più pecoreccia in stile “L’allenatore del pallone”), cartoon alla “Holly e Benji” ed acrobatiche evoluzioni alla “Shaolin Soccer”.

“U.S. Palmese” prende in giro e si prende in giro, sospeso tra sforzi di verosimiglianza (il coinvolgimento di autentici giornalisti sportivi) e una coreografia calcistica tutta da ridere a 5 km all’ora (in campo i giocatori si fermano, sognano, immaginano che un singolo gesto sportivo possa cambiare la loro vita).

La favola prende le mosse dalla follia di un vecchio agricoltore calabrese, Don Vincenzo (Rocco Papaleo), che convince i 18.000 cittadini di Palmi (in quella terra “bella e sfortunata” che è la Calabria, come spesso si dice nel film) a tirare fuori 300 euro a testa per pagare l’ingaggio del fuoriclasse francese Etienne Morville (Blaise Afonso), calciatore francese cresciuto nelle banlieue, perché si trasferisca dalla serie A (che lo ha bandito per le sue continue bizze) alla realtà dilettantistica della U.S. Palmese.

Sembra fantascienza ma, per ripulire la propria immagine viziata e rissosa, Morville accetta, scaraventato come un marziano nei ritmi lenti della cittadina calabrese e negli schemi estemporanei della formazione nero-verde guidata da un iperbolico allenatore (Max Mazzotta, il personaggio più esilarante del film).

All’inizio il fuoriclasse non si impegna e non si integra, fomentando, così, la rabbia dei palmesi (che hanno tirato fuori i soldi per lui, invece di ristrutturare l’ospedale) e la vergogna di Don Vincenzo che si sente tradito.

Eppure, la genuinità del posto finisce per fare breccia nel cuore di Morville che ritrova, una notte, la gioia di giocare a calcio, diventando, da quel momento in poi, “U Giganti”, capace non tanto di portare la squadra al primo posto della classifica, quanto di infondere fiducia ai propri scalcinati compagni, a cominciare dall’eterno panchinaro. Buoni sentimenti, qualche riuscita macchietta (la poetessa locale interpretata da Claudia Gerini) e tutto il campionario di umanità da bar dello sport (l’avvocato, lo scemo del paese, il macellaio, il professore citazionista) che fanno di “U.S. Palmese” un film consapevolmente ingenuo, un po’ anacronistico ma godibile. (Marco Contino)

Voto: 6

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Berlino, Estate '42

Regia: Andreas Dresen

Cast: Liv Lisa Fries, Johannes Hegemann, Lisa Wagner, Alexander Scheer

Durata: 124’

Il film "Berlino Estate '42"
Il film "Berlino Estate '42"

Anche se la Resistenza antinazista in Germania è stata una manifestazione sotterranea, rispetto all’ampiezza del fenomeno in Italia o Francia, più ristretta sia per numero che per ampiezza di luoghi e di fasce d’età, più legata ad alcune organizzazioni politiche o religiose, ha avuto comunque le sue centinaia di vittime e i suoi esempi che sono rimasti nel tempo.

La più nota probabilmente è quella di Sophie Scholl e della Rosa Bianca (già al centro di un film del 2015), ma abbastanza famoso fu anche il gruppo di giovani spie di “Orchestra rossa”, come vennero definiti i suoi membri dalla Gestapo per la loro attività a favore dell’Unione Sovietica.

Il regista Andrea Dresen sceglie di raccontare la storia dei Coppi, tra le più note, e lo fa con delicatezza e affetto, anche grazie alla recitazione contenuta, ma intensa, dei protagonisti, e in particolare di Lisa Fries nel ruolo di Hilde Coppi, moglie di Hans e madre di Hansy, che partorisce in carcere. La percezione del suo ruolo di madre dà a Hilde la speranza di sopravvivere e di un domani migliore, speranza vanificata dalla repressione del regime, diventato sempre più autoritario negli ultimi anni della guerra.

Siamo infatti nel 1942, come ricorda il titolo, un’estate di amore e di sogni per i Coppi che si innamorano e decidono di sposarsi, poco prima di essere arrestati e divisi. Hilde partorirà in carcere e riuscirà a salvare il suo bimbo, allattandolo. Un bimbo che, un paio d’anni fa, giunto a 80 anni, decide di raccontare tutta la storia, dando luogo al film.

Il regista Andreas Dresen sceglie un registro di narrazione minimalista, ma tutt’altro che asettico, costruendo invece un’alternanza di momenti belli, colorati, pieni d’amore, e di scene grige con le protagoniste ristrette in cella, nel carcere di Plötzensee, o in ospedale, dove però riesce a non essere mai statico grazie a piani sequenza impensabili in spazi così angusti. Anche per mostrare come anche in quel mondo tetro qualche spiraglio di luce buchi il muro del nazismo, dalla kapò che aiuta Hilde a tenere il bambino e le fa fare la domanda di grazia al Führer, alle colleghe e amiche.

Non c’è nulla di eroico in Hilde, una ventenne come tante altre che aderisce per amore al movimento clandestino, ma ne condivide obiettivi e prassi con Hans. Dresen, nato in Germania Est, vuole differenziare i suoi protagonisti dagli eroi conclamati del socialismo reale o delle dittature, mostrando la loro umana debolezza a fianco della loro forza d’animo che impone loro di ribellarsi, giorno dopo giorno, e resistere. Il loro esempio non è stato vano. (Michele Gottardi)

Voto: 6.5

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Muori di lei

Regia: Stefano Sardo

Cast: Riccardo Scamarcio, Maria Chiara Giannetta, Mariela Garriga

Durata: 103’

Il film "Muori di lei"
Il film "Muori di lei"

Ménage à trois al tempo del Covid. Lui (Scarmarcio) è un professore di filosofia senza ambizioni, sposato con Sara (Giannetta) che, tutti i giorni, affronta da medico internista la pandemia in ospedale, nonostante abbia un posto assicurato nella clinica privata del padre, ricco e arrogante (Paolo Pierobon). Nel b&b di fronte al loro appartamento, Amanda (Garriga), una sensuale ragazza cubana, resta bloccata dal divieto di uscire di casa. Inevitabile che, in assenza della moglie, lui e l’altra rimangano coinvolti in una relazione, anche se Amanda non si trova lì proprio per caso …

Il secondo film da regista dello sceneggiatore Stefano Sardo - Muori di lei – frulla infiniti cliché provando a cavalcare il brocardo chapliniano “La vita è una tragedia se vista in primo piano, ma è una commedia se vista in campo lungo”, aggiungendovi pure la componente thriller. Scamarcio è svogliato, Giannetta e Garriga provano a tenere in piedi la baracca, Paolo Pierobon è sempre il più bravo anche nei ruoli secondari ma, al di là di una scrittura stantia e spesso anche poco plausibile, la vera domanda è questa: chi ha voglia di vedere (e ricordare) una ambientazione al tempo del Covid, con i messaggi alla nazione di Conte, i riferimenti alle bare di Bergamo, le code per fare la spesa, la didattica a distanza, gli scafandri e le mascherine? (Marco Contino)

Voto: 4

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