Lo spirito d’Europa dirà se Gorizia e Nova Gorica hanno vinto sul passato
Le due città non restino prigioniere del ruolo che avranno per un anno: spetta alla cultura dei luoghi e delle genti far sì che la svolta diventi definitiva. E attenzione ai simboli, perché sono pericolosi
Gorizia, in italiano. Gorica, in sloveno. Görz, in tedesco. Gurize, in friulano. Guirissa, in dialetto bisiacco. Un cosmo in miniatura, un intrico di anime e storie raccontate in lingue diverse. Gorizia e Nova Gorizia. Un tempo divise dal filo spinato, ora sono simbolo di riconciliazione, si dice. Ma dovremmo stare attenti perché i simboli sono pericolosi, soprattutto quando si parla di cultura. Rimandano infatti a un’idea di tempo congelato, di immobilità, di monumentalità che poco ha a che fare con le caratteristiche di vivacità e divenire proprie del pensiero intellettuale – a seguire i linguisti il simbolo è un segno che ha un rapporto puramente convenzionale con la realtà. Attenzione dunque.
Sotto un cielo mitteleuropeo
Camminiamo per le strade di Gorizia e Nova Gorica in un qualsiasi pomeriggio di questo ventoso inizio febbraio, come sempre sotto un cielo mitteleuropeo, e capita di fare alcune riflessioni.
Gorizia ha una gentile grazia, si attraversano i suoi marciapiedi incontrando poche persone e poche auto, mancano le grandi catene di negozi e i trapizzini romani che fanno della vicina Trieste una candidata del turismo globale più spiccio, qui invece si vede ancora qualche insegna sbiadita in tedesco e aleggia un’aria quieta e un po’ enigmatica da avamposto di frontiera.
Sconfinando di là, si trova una città più moderna, una familiare aria jugoslava nei palazzi brutalisti, e non mancano naturalmente i casinò. Insieme le due città non raggiungono i cinquantamila abitanti, i giovani sotto i quindici anni sono circa il dieci per cento e, nonostante tutti gli sforzi, gli eventi culturali che hanno preceduto le celebrazioni di Go!2025 vedevano quasi sempre un pubblico anziano.
Rischi all’orizzonte
C’è dunque un rischio all’orizzonte: alla fine di questo anno mirabolante in cui le due città sul confine saranno simbolo di cultura, quando tutto sarà finito e le telecamere nazionali si saranno allontanate, quando i politici cittadini avranno dato fondo alle energie migliori e quelli regionali torneranno a celebrare i trionfi culinari e sportivi molto più di quelli culturali, cosa rimarrà di questo simbolo?
Un contenitore retorico di due città semi disabitate, in un’epoca in cui il confine orientale torna a essere presidiato con le armi, le persone che lo attraversano a piedi rimandate indietro in spregio a qualsiasi principio fondatore d’Europa, e la cultura rischia di assomigliare sempre di più a una promozione turistica.
Riconsiderare la geografia
Per evitarlo forse ci torna utile guardare alla geografia. Perché la geografia? Innanzitutto perché l’Europa più di ogni altro è un continente camminabile, le distanze hanno scala umana, possono essere percorse da chi viaggia a piedi: la cartografia d’Europa è nei fatti la possibilità del piede umano. Il pensiero poetico e filosofico europeo nasce da pellegrini e flâneur vagabondi.
Ed è camminando nelle strade che noi sfogliamo il nostro passato prossimo: basta alzare gli occhi ai cartelli delle vie che portano nomi di generali e scrittori, battaglie e scienziati, per ricordarci quella vecchia definizione di Europa come luogo della memoria. Il che significa, soprattutto nel caso di questo confine, portare anche traccia di un passato di odio e sacrifici, di tensioni mai pacificate.
I caduti della Prima guerra mondiale che da qui partirono a morire nella sanguinosa Galizia tra le file dell’Impero austroungarico e per questo furono a lungo malamente ricordati dall’Italia; gli sloveni del Carso che furono i più renitenti all’italianizzazione fascista e che per questo subirono i piani accaniti dell’educazione di Stato con schiere di maestri “italiani” mandati in sostituzione delle maestre “allogene”, come racconta Adriano Sofri nel suo romanzo Il martire fascista, intimo e rivelatore; e poi i partigiani che si scontrarono tra loro nei giorni paranoici della fine della guerra.
È difficile da queste parti non rimanere schiacciati dal peso del passato che continuamente si riavvolge su sé stesso, eppure è proprio in nome di quel passato che le due città di confine sono oggi un simbolo.
Mescolanza di lingue
Ma di cosa? Della cultura che chiamiamo europea. E che fu essenzialmente mescolanza di lingue, apertura di confini, istituzioni riconosciute democratiche, radicamento nella Storia e elevazione dello spirito. Ma questa idea di cultura è vulnerabile. Non a caso la prima cosa che fanno le dittature è togliere la parola ai poeti, minacciare gli scrittori, allontanare dalla cattedra i professori.
Guardando alla fine del Novecento, George Steiner, il più europeo dei pensatori, disse con semplicità: «Uccidendo i suoi ebrei, l’Europa si è suicidata». Con lo sterminio di sei milioni di ebrei, moriva il mondo di Kafka, di Celan, di Benjamin, di Mahler e con loro lo spirito dell’Europa. Ma è proprio a partire da quelle ceneri che la si è sognata più forte. La sua cultura però è fragile.
Nazionalismi, razzismi, odii e pretese regionali attentano alla sua vita perché il suo genio è nella diversità culturale e linguistica (la morte di una lingua è una perdita irreparabile di potenzialità umane), è nel suo saper trasformare una distanza di pochi chilometri in due mondi completamente diversi, il suo genio fa resistenza al desiderio di uniformità dei poteri antieuropeisti.
Fertilità inesauribile
È questa assurda complessità frammentata, che Gorizia e Nova Gorica incarnano, a rappresentare una fertilità inesauribile per la cultura.
E allora, perché quest’anno di celebrazioni non rimanga un simbolo retoricamente inerte, è necessario che i territori si attrezzino con una visione di sviluppo che, malgrado quello che vogliono farci credere, deve essere prima di tutto culturale per evitare che le migliori giovani menti se ne vadano in quei continenti dove massimamente si dà importanza alla cultura, allo studio e alla ricerca. Quest’anno goriziano sembra mandare a noi e a sé stesso un monito: la cultura non è uno strumento della politica, non ne è un simbolo per presentarsi ripuliti al salotto buono, ma la politica è sempre al servizio della cultura perché dalla cultura prende la linfa e i sogni migliori, la sua libertà. Libertà sconfinata, si dice.
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