Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal primo gennaio

Angelina Jolie è Maria Callas nel nuovo ritratto al femminile di Pablo Larraín. “Better Man” è un “biopic” molto particolare e originale sul cantante Robbie Williams. Robert Eggers firma il remake di “Nosferatu”. Con “Armand”, il nipote di Ingmar Bergman e Liv Ullman mostra una società norvegese da incubo

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "Maria"
Il film "Maria"

“Maria” è il terzo ritratto femminile (dopo “Jackie” e “Spencer”) firmato dal regista cileno Pablo Larraín sugli ultimi anni di carriera della più grande cantante lirica del mondo (interpretata da un’altra diva come Angelina Jolie).

Michael Gracy sceglie … uno scimpanzè per intepretare Robbie Williams e raccontare in “Better Man”, la scoperta, l’ascesa, la caduta e la rinascita di una star.

Delude “Nosferatu” dell’ormai non più promettente Robert Eggers: oltre alla devozione per l’originale di Murnau, il nulla. Romanticismo, seduzione del Male e inquietudini muoiono molto prima dell’alba.

Dalla Norvegia arriva l’opera d’esordio di Halfdan Ullmann Tøndel: un “incidente” scolastico si trasforma in una sorta di incubo e, infine, nell’aperta denuncia di una società cinica e giudicante. Con una splendida Renate Reinsve, “la persona peggiore del mondo”.

Maria

Regia: Pablo Larraín

Cast: Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Kodi Smit-McPhee, Valeria Golino, Alessandro Bressanello

Durata: 123’

Il film "Maria"
Il film "Maria"

 

La galleria di donne celebri, ma sconfitte dalla vita, di Pablo Larraín, dopo “Jackie” e “Spencer” si completa con “Maria”, che racconta la tumultuosa, tragica e bellissima storia della vita della più grande cantante lirica del mondo, rivisitata e reinterpretata durante i suoi ultimi giorni nella Parigi degli anni Settanta, pur tra qualche flash-back che ne ripercorre le umili origini e la crescita canora.

La scelta di narrare le ultime settimane della Callas, nell’esilio parigino, tra i fumi chimici del Mandrax (un forte ipnotico arbitrariamente usato come tranquillante), i ricordi, le visioni, i rimpianti, ha destato qualche polemica tra i numerosi vedovi della Divina.

Invece il film è coraggioso sia nel mostrarla nell’intimità di una situazione difficile, sia nell’affidare la parte a un’altra diva come Angelina Jolie, qui molto Audrey Hepburn, che fu il modello degli ultimi anni della Callas.

 

E nello svelare, indipendentemente sia andata effettivamente così, che la decisione del suicidio potrebbe essere stata legata, con buona probabilità, all’ascolto di un nastro di prove della sua voce – la soprano non aveva mai abbandonato l’idea di tornare sul palcoscenico – in cui invece di un bel canto aveva ascoltato delle forti stecche.

Ed è «l’istante in cui la sicurezza di sé diventa follia», come profeticamente dice Maria/Angelina. Altra scommessa vinta è stata far cantare Jolie mixandola con l’originale, proponendo di fatto la sua recitazione per la cinquina degli Oscar.

Chiave del film non poteva che essere il melodramma, cui tutta la vita di Maria sembra ispirata, e Larraín vi attinge con una sequenza finale di grande pathos come solo la lirica può dare.

Ma ci sono anche immagini dalle forti connotazioni dark, tra incubi e speranze che escono dall’inconscio e prendono forma fisica nel giovane Kodi Smit-McPhee che prende il nome dello stesso stupefacente, Mandrax.

Nel cast anche due volti noti del nostro cinema: Pierfrancesco Favino è l’autista e maggiordomo Ferruccio e Alba Rohrwacher è invece la fedele domestica Bruna.

Nel ruolo del primo marito di Maria Callas, il cavalier Giovanni Battista Meneghini, benestante imprenditore veronese che la supporta agli inizi della carriera, c’è l’attore veneziano Alessandro Bressanello. (Michele Gottardi)

Voto: 7

***

Better man

Regia: Michael Gracy

Cast: Robbie Williams, Jonno Davies

Durata: 134’

 

Il film "Better man"
Il film "Better man"

Affascinato evidentemente dall’eccesso degli uomini dello spettacolo, quale esso sia, il regista Michael Gracy passa dall’Ottocento di P.T. Barnum (“The Greatest Showman”, 2017) al contemporaneo di una pop-star come Robbie Williams, personaggi accomunati entrambi dalla volontà di strafare per dimostrare agli altri il proprio valore, in una ricerca morbosa e infinita dell'approvazione sociale e artistica, causata dall'incapacità di prescindere dal giudizio degli altri.

Ma “Better man” non è solo questo, è una lisergica trasmissione di vitalità e di forza di determinazione cui Robert Williams, detto Robbie, ha improntato la propria vita. E soprattutto non è (solo) un biopic, ma prima di tutto è un musical, intervallato da una voce fuori campo. Quindi, se ci fosse un dubbio, spettacolo totale.

Figlio di un gestore di un pub col gusto dell’entertainment; il piccolo Robbie già a 16 anni entra a far parte della boy band dei Take That rispondendo a un annuncio di scouting per un posto nella band.

Ma nonostante il successo immediato, o forse proprio per questo, matura un disagio manifesto consolidatosi nella “sindrome dell’impostore” che lo farà sempre sentire fuori posto, spingendolo in tunnel di perdizione tra droghe, alcool e depressione dal quale sembra finalmente essere uscito.

Per evidenziare bene questo disagio al suo grande pubblico, ma anche allo spettatore della sala, il regista Michael Gracy escogita una trovata che da sola vale tutto il film, far interpretare Robbie Williams da… uno scimpanzè.

Non in carne e ossa certo, ma una scimmia realizzata in grafica computerizzata sulle movenze dell'attore e ballerino Jonno Davies, che indossa una tuta da motion capture, ma che riecheggia e ripete le espressioni del cantante nativo di Stoke-on-Trent, capoluogo dello Staffordshire, a metà strada tra Liverpool e Birmingham.

La scimmia intesa come un ominide, perché questa è la percezione che Robbie Williams ha avuto a lungo di se stesso, un essere inferiore agli altri uomini che cercherà per questo di strabiliare per poter colmare il gap.

Ed ecco allora lo sfavillio del musical, dei numeri danzanti, delle canzoni, della folla e di performance irrefrenabili.

Poi come tutti i biopic del genere il è tema ricorrente: scoperta, ascesa e caduta di una star, ma qui per fortuna c’è anche la ripresa, segnata dalle innumerevoli reunion coi Take That e dai suoi successi personali come solista.

Solo che il film in parte tralascia i fatti per incentrarsi soprattutto sui rapporti familiari e amicali più antichi, la nonna e il padre, soprattutto, con cui inscena una sequenza finale da brivido, davanti a tutte le sue scimmie passate, sulle note di “My way” di Sinatra, uno dei numi tutelari di Robbie Williams, assieme a Dean Martin, a riprova delle origini melodiche del cantante inglese. Sempre cercando di diventare un uomo migliore come dice una delle sue canzoni più celebri. (Michele Gottardi)

Voto: 6.5

***

Nosferatu

Regia: Robert Eggers Cast: Nicholas Hoult, Lily-Rose Depp, Aaron Taylor-Johnson, Willem Dafoe, Bill Skarsgård

Durata: 132’

Il film "Nosferatu"
Il film "Nosferatu"

Robert Eggers ha sempre raccontato di essere ossessionato dal capolavoro del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau, “Nosferatu il vampiro”. Ed è questa stessa ossessione a spiegare il fallimento della sua operazione di volerne realizzare a tutti i costi un remake.

Perché il “Nosferatu” di Eggers non solo non va oltre l’omaggio, ricalcando pedissequamente l’originale (dalla trama alla messa in scena chiaroscurale che richiama, ovviamente, inquadrature e atmosfere dell’espressionismo tedesco), ma nel tentativo di rielaborarne forme e contenuti, lo brutalizza.

Scegliendo una visione più ferina della storia (ma anche più volgare e banale), spogliando il conte Orlok (e ciò che rappresenta) di qualsivoglia seduzione romantica e gotica, riducendo il desiderio sessuale represso a una sequela di gemiti e contrazioni ma, soprattutto, puntando su un elemento demoniaco (a cui molto deve dal suo fulminante film d’esordio - The Witch – che, purtroppo, oggi ha più il sapore di una promessa mancata) che, in qualche sequenza, rasenta persino il ridicolo. Con un finale consolatorio tra fiori di lillà che grida vendetta.

“Nosferatu” è la prima grande delusione dell’anno.

La vicenda è quella nota: la stessa che Murnau, per non pagare le royalties a Bram Stoker, mutua da “Dracula”, cambiando ambientazioni e nomi. Eggers ne sposta significativamente il baricentro sulla figura femminile, Ellen (Lily-Rose Depp), moglie

“malinconica” dell’agente immobiliare Thomas Hutter (Nicholas Hoult), che sin da bambina ha stretto un legame di attrazione-repulsione con l’ombra del non-morto Nosferatu che, ora (siamo a Wisbog, in Germania, nel 1838), vuole raggiungerla in città dalla sua tomba-dimora nei Carpazi.

Per farlo, si serve di Hutter, inviato dal datore di lavoro nei boschi della Transilvania per raccogliere la firma del misterioso conte sul contratto di proprietà di un castello, mentre Ellen, ospitata dalla famiglia di Friederich Harding (Aaron Taylor-Johnson) comincia ad avere strane visioni e a cadere in continui stati di estasi e trance. Nosferatu ormai è vicino: né il ritorno di Hutter, sopravvissuto alla maledizione del vampiro, né l’intervento di uno scienziato esperto di occultismo (Willem Dafoe), possono fermare il conte né la terribile peste che ha portato con sé e che si diffonde in città con esiti drammatici.

Eggers, nella prima parte del film (la più riuscita ma anche la più “facile”) si genuflette davanti all’estetica di Murnau (la carrozza senza cocchiere, le dita ossute e nodose di Nosferatu, le ombre nella notte) ma, superata la devozione, non riesce a guidare il film al di là di una rappresentazione non soltanto molto convenzionale (con quasi tutti gli attori incapaci di dare un minimo spessore al personaggio che interpretano) ma quasi grossolana, muscolare e, infine, molto piatta.

Le profonde inquietudini della storia, il suo romanticismo, la seduzione del Male svaniscono molto prima dell’alba. (Marco Contino)

Voto: 4

***

Armand

Regia: Halfdan Ullmann Tøndel Cast: Renate Reinsve, Ellen Dorrit Petersen, Øystein Røger, Loke Nikolaisen, Thea Lambrechts Vaulen

Durata: 100’

 

Elisabeth (Renate Reinsve) è la madre vedova di Armand, un bambino di sei anni, accusato di aver molestato sessualmente Jon, un compagno di classe, utilizzando il linguaggio crudo degli adulti.

Convocata a scuola in un asfissiante pomeriggio di inizio estate, insieme ai genitori della vittima, dal preside e da sue due collaboratrici, Elisabeth si trova davanti a una sorta di tribunale dell’inquisizione a cui, forse, non interessa scoprire la verità ma scavare nel passato della donna, metaforicamente intrappolata nell’edificio e nella sua rete di bugie, omissioni e rapporti ambigui con la madre di Jon.

Un vero e proprio incubi ad occhi aperti.

L’opera d’esordio di Halfdan Ullmann Tøndel (nipote d’arte che porta sulle spalle il nome dei nonni Ingmar Bergman e Liv Ullman) pianta le radici sul terreno di un realismo sociale molto identificabile (“La sala professori” è uno degli esempi cinematografici più recenti) ma, gradualmente, se ne allontana per abbracciare una visione più onirica e allucinata, ricca (forse troppo) di simbolismi che restituiscono allo spettatore il profilo di una società cinica e giudicante, di una istituzione (la scuola) alla deriva (la professoressa che sanguina continuamente dal naso, gli allarmi anti-incendio rotti), di una rete sociale (genitori e insegnanti) che dovrebbe comprendere e accogliere ma che, al contrario, condanna sino a diventare violenta.

In questa ambiguità malata e nella sua ambientazione labirintica che ricorda gli ambienti asettici di un istituto di igiene mentale più che le aule rassicuranti di una scuola, “Armand” trova la propria cifra, peccando un po’ di arroganza (o, meglio, di mancanza di maturità) in un epilogo estenuante un po’ slabbrato che non aveva bisogno, per essere “spiegato”, di ulteriori metafore (la pioggia purificatrice e lo schieramento finale). Ottima Renate Reinsve, tra disperazione, crisi isteriche di riso e rabbia repressa. “Armand” è candidato all’Oscar per la Norvegia come miglior film internazionale. (Marco Contino)

Voto: 6,5

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