Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 10 aprile
L’“Eden” di Ron Howard è un inferno. François Ozon serve funghi velenosi nel film “Sotto le foglie”. L’ossessione di Angelina Jolie per la guerra nel suo quarto film da regista, “Senza sangue”. “La casa degli sguardi” segna l’esordio dietro la macchina da presa di Luca Zingaretti

Ron Howard racconta una storia vera di utopia e violenza nel falso “Eden” di un’isola delle Galapagos. Cast ricchissimo: Jude Law, Vanessa Kirby, Daniel Brühl e Sidney Sweeney. Sguardo inedito (per il regista) ma non troppo originale.
François Ozon firma un “polar” rurale nelle campagne della Borgogna. “Sotto le foglie” brulicano pulsioni feroci.
Angelina Jolie adatta Baricco, ma “Senza sangue” diventa, nelle mani della regista/attivista, un melodramma da caffè così universale da perdere completamento di peso e gravità.
Luca Zingaretti, per il suo primo film da regista (“La casa degli sguardi”) sceglie un racconto familiare tratto da un altro esordio letterario, quello di Daniele Mencarelli, autore di “Tutto chiede salvezza”.
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Eden
Regia: Ron Howard
Cast: Jude Law, Ana de Armas, Sydney Sweeney, Vanessa Kirby, Daniel Bruhl, Toby Wallace
Durata: 129’

All’inizio degli anni ’30 l’Europa è una polveriera, con i fascismi pronti a sfruttare la sua fragilità economica per una drammatica ascesa. Il medico e filosofo tedesco Friedrich Ritter (Jude Law) abbandona la civiltà insieme alla sua compagna e discepola Dore Strauch (Vanessa Kirby) per teorizzare e fondare sull’isola di Floreana, nelle Galapagos, una nuova civiltà.
Il suo esempio ispira anche il veterano di guerra Heinz Wittmer (Daniel Brühl) che si trasferisce in questo lembo di terra inospitale (tutt’altro che l’Eden che avevano immaginato) insieme alla giovanissima moglie Margret (una sorprendente Sidney Sweeney) e al tubercolotico figlio di lui.
Ritter non accetta di buon grado l’intrusione, cercando, da subito, di scoraggiare i Wittmer, ma la vera scossa tellurica deve ancora manifestarsi. Sull’isola, infatti, arriva anche la sedicente baronessa Eloise Wagner de Bousquet (Ana de Armas), bugiarda e manipolatrice, che sogna di costruire un resort di lusso sulla spiaggia, servita e riverita da due schiavetti-amanti e trama per mettere una contro l’altra le due famiglie.
La convivenza genera, all’inizio, qualche piccolo dispetto reciproco per poi esplodere in senso “hobbesiano” ed egoistico – secondo il classico brocardo “homo homini lupus - in una guerra di sopravvivenza, in cui l’istinto soverchia la ragione e gli appetiti l’utopia di un mondo senza violenza (quella da cui gli stessi protagonisti stavano fuggendo nel continente).
Con “Eden”, Ron Howard esce dai binari del proprio cinema per raccontare una storia che è straordinaria per il solo fatto di essere vera e di basarsi sulla (contrastante) versione dei fatti di Margret (che ha vissuto sull’isola fino alla sua morte a 96 anni) e sul memoriale di Dore Strauch. L’aspetto più interessante (e inedito per il regista) risiede nello sguardo quasi putrescente di questa realtà selvaggia, infestata da parassiti e cani selvatici, in cui coltivare un pezzettino di terra è impresa faticosa ed estenuante.
Se il teatro dell’azione sprigiona un efficace senso malsano di sconfitta, è nella interazione dei personaggi che il film sbanda pericolosamente tra farsa (di cui è espressione la baronessa), follia (quella di Ritter che finisce per essere dominato dalla sua “fame” e impazzisce come un Jack Torrence naufrago) e digressioni filosofiche che, in fondo, non scoperchiano nulla di nuovo (ovvero come situazioni estreme scatenino gli istinti peggiori dell’uomo, più forti e brutali di qualsiasi utopia).
L’epilogo “vestale”, da un lato, segna una netta superiorità del femminile sul maschile, dall’altro celebra, forse in modo un po’ ambiguo, la centralità del focolare domestico e della sua inattesa sacerdotessa. (Marco Contino)
Voto: 6
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Sotto le foglie
Regia: François Ozon
Cast: Hélène Vincent, Pierre Lottin, Ludivine Saigner e Josiane Balasko
Durata: 102’

François Ozon modifica parzialmente il plot degli ultimi film per un polar più intimista il cui titolo, sia nell’originale francese che in quello italiano, gioca molto sulle ambiguità della logica dell’apparenza.
Se infatti “Sotto le foglie” richiama immediatamente qualcosa di nascosto e di celato, il francese “Quand vient l'automne” rimanda alle stagioni della vita, in particolare a quella di due signore ormai pensionate, dopo aver saltato a lungo la cavallina, a Parigi, impiegate nel mestiere più antico del mondo.
Ormai ritirate in un piccolo villaggio della Borgogna, oltre a raccogliere funghi vivono nell’attesa: Michelle della visita della figlia Valérie, con cui non ha un buon rapporto e che spesso le rinfaccia la sua vita da prostituta, ma soprattutto del nipotino Lucas; Marie-Claude dell’uscita di prigione del figlio Vincent. Questo quadro già di per sé crepuscolare vira al noir dapprima quando Valérie, intossicata da una quiche ai funghi raccolti dalle due signore, accusa la madre di averla avvelenata e le impedisce d'ora in avanti di rivedere Lucas. Quando Vincent - che come dice sua madre ha un cuore buono e vuol fare del bene, ma invece provoca disastri – uscito di prigione, decide di intervenire, la situazione si complica alquanto, per così dire.
Il regista François Ozon lascia lo stile scoppiettante di “Mon crime” per tornare al giallo venato di ironia e di perbenismo nel quale si era già espresso, con ottimi risultati, sin da “Otto donne e un mistero” (2002). Qui all’ordine del giorno sono complicità e scambio di ruoli, volontarietà e involontarietà di gesti, in una spirale di casualità che avviluppa tutti, adolescenti, adulti e anziane signore, e di cui i protagonisti restano prigionieri, in modo consapevole, per un senso di difesa, ma anche di sopravvivenza.
Ozon mostra, con la consueta intelligenza di scrittura e l’abituale precisa direzione di attori e, ancor meglio, attrici, che le vite parallele e la doppiezza, anche semplicemente difensiva, non è patrimonio esclusivo dell’alta borghesia.
Certo, lo spettatore si farà un’idea alla fine del film, più narrativa che morale, sui singoli protagonisti. Michelle trova in Vincent quella sorta di figliol prodigo che Valérie non è mai stata, recupera il rapporto con Lucas, in una logica familiare che travalica i legami di sangue e indica una complicità in cui effettivamente a prevalere è l’affetto. O forse è solo complicità? (Michele Gottardi)
Voto: 7
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La casa degli sguardi
Di e con Luca Zingaretti
E con Gianmarco Franchini, Federico Tocci, Chiara Celotto, Alessio Moneta
Durata: 109’

Opera d’esordio alla regia di Luca Zingaretti, “La casa degli sguardi” è tratto dall’omonimo romanzo, d’esordio anch’esso oltre che autobiografico, di Daniele Mencarelli.
Il protagonista è Marco (Gianmarco Franchini), poco più che ventenne, con una grande empatia verso il dolore del mondo, accompagnata però da un’incapacità di tener testa all’angoscia di esistere e di vivere. Una condizione che d’un lato lo porta a scrivere poesie che hanno già avuto discrete fortune editoriali, dall’altro a cercare nell’alcool e nelle droghe una strada per dimenticare ansia e dolore.
Beve tanto Marco, beve troppo. È in fuga dal dolore ma soprattutto da se stesso. Per vivere si deve anestetizzare, dalla perdita della mamma, da qualche anno, e più recentemente della morosa, dal fatto di non aver finito la scuola, di avere accanto solo il padre (lo stesso Zingaretti, tranviere del 19), che lo segue da vicino, in un pressing quasi asfissiante.
Inevitabile l’incidente stradale che lo manda in ospedale: per evitare possibili ripercussioni penali, se dovessero saltar fuori le analisi del suo stato di ebbrezza alla guida che al momento dell'incidente la polizia ha trascurato, il padre e l’editore lo convincono a trovarsi un lavoro. Entra così in una ditta di pulizie, nella squadra che lavora all’ospedale pediatrico del Bambin Gesù. Ed è qui che la sua presa di coscienza diventa positiva e gli fa prendere responsabilità, a contatto d’un lato con la solidarietà dei colleghi, dall’altro col dolore dei bambini ammalati e dei loro familiari.
Zingaretti, nel trasportare il romanzo sullo schermo, sceglie un registro narrativo che, pur trasmettendo l’empatia del protagonista, rimane un po’ distaccato nella narrazione. Certo, il regista evita accuratamente scene strappalacrime che avrebbero potuto dare un tono melodrammatico al film (pensate anche solo alla storia fatta dagli sguardi del titolo, evocata da dietro una finestra, col piccolo paziente) o più intimo (senza sesso o altre scene solo accennate).
Spesso il film si appiattisce ingenuamente in siparietti che sanno un po’ troppo da fiction televisiva. Ma qui non c’è Montalbano, c’è un altro pathos che fatica a uscire, anche se Franchini e la sua squadra sono bravi. (Michele Gottardi)
Voto: 5
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Senza sangue
Regia: Angelina Jolie
Cast: Salma Hayek Pinault, Demián Bichir
Durata: 91’

Un tempo e un luogo indefiniti. In una sperduta fattoria in mezzo ai campi di grano, un padre e i suoi due suoi figli vengono assediati da due uomini. Con loro c’è anche Tito, più giovane e meno abituato alla violenza. La guerra è finita ma la vendetta non segue le leggi belliche.
Padre e figlio vengono trucidati, mentre la piccola Nina, nascosta sotto le assi del pavimento, pur notata da Tito, viene risparmiata dalla mattanza e dal successivo incendio appiccato alla grande fattoria.
Molti anni dopo, Nina (Salma Hayek Pinault) ritrova Tito (Demián Bichir): seduti al tavolo di un bar, il loro confronto tra “sopravvissuti” diventa confessione, ma anche pulpito dal quale rivendicare scelte del passato, visioni della vita e della guerra, in un dialogo universalizzante destinato a concludersi fuori campo.
Angelina Jolie torna alla regia adattando per il cinema l’omonimo romanzo di Alessandro Baricco, “Senza sangue”. Impegnata da sempre come attivista in zone di guerra, la diva eterea sembra quasi voler trovare peso e concretezza nei film che dirige. Il conflitto in Bosnia al suo esordio “Nella terra del sangue e del miele” e poi la seconda guerra mondiale in “Unbroken”. Per finire con “Per primo hanno ucciso mio padre”, ambientato nella Cambogia dei Khmer rossi.
“Senza sangue”, fatta eccezione per l’incipit western, è il frutto della disidratazione di quei titoli che avevano, ancora, un ganglio di racconto imperniato sui temi della guerra e delle sue conseguenze nelle relazioni e nei rapporti familiari.
Angelina Jolie, aderendo al grado di universalità del romanzo, finisce per svuotare di gravità la storia che scolora in un melodramma da caffè senza peso in cui vendetta, perdono, ideologie, speranze e illusioni si dissolvono come il fumo delle sigarette di Nina. Più che etereo come la sua regista, il film è un esangue (come da titolo) esercizio di adattamento (anche molto pigro) delle pagine di Baricco, un tentativo (fallito) di vivificazione della parola che sembra non incontrare mai il cinema. (Marco Contino)
Voto: 4
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