Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 17 aprile
Daniel Craig come non lo avete mai visto in “Queer” di Luca Guadagnino. Il cinema accogliente di Robert Guédiguian con “La gazza ladra”. Dalla Mostra di Venezia il secondo capitolo della trilogia delle relazioni di Dag Johan Haugerud, “Love”

Luca Guadagnino adatta il suo “livre de chevet” (il lisergico “Queer” di William S. Burroughs) nel suo film più personale: un viaggio allucinato nell’ossessione sessuale e nella fenomenologia dei corpi.
Robert Guédiguian, con la sua “famiglia” di attori, dirige “La gazza ladra”, un dramma al sole, accogliente e poetico. Il suo romanticismo sociale è ancora bellissimo da vedere.
Scritto e diretto da Dag Johan Haugerud, “Love” è parte della trilogia SEX-LOVE-DREAMS che affronta diverse sfaccettature dei rapporti amorosi e sessuali del mondo contemporaneo, indagando forme di intimità oltre i limiti delle relazioni.
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Queer
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Daniel Craig
Durata: 135’

Non è stato facile per Daniel Craig, ultimo esempio del machismo bondiano (quello di «My name is Bond, James Bond») declinarsi in attore feticcio di Luca Guadagnino, nella trasposizione per il grande schermo del lisergico “Queer” di William S. Burroughs, scritto nel 1952, ma pubblicato solo nel 1985 perché considerato scandaloso per il racconto di una normale omosessualità, nonostante la fama del suo autore, considerato il padre della beat generation.
Un romanzo breve, autobiografico, che ricostruisce in parte l’amicizia tra Borroughs e un militare della U.S. Navy, Adelbert Lewis Marker. Ma sicuramente il personaggio che esce dalla recitazione di Craig è tanto genuino quanto anomalo nella sua galleria di interpretazioni e il suo valore va ben oltre l’economia generale del film.
È il 1950. William Lee (Daniel Craig) è un americano sulla soglia dei cinquanta, espatriato a Città del Messico. Passa le sue giornate quasi sempre da solo, poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane studente appena arrivato in città, gli mostra per la prima volta la possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno, andando oltre una tristezza esistenziale che lo accompagnerà comunque a lungo.
Ma quello che diventa definitivo nel percorso di Lee è il viaggio nella giungla, allucinato e allucinogeno, alla ricerca di un motivo di vita e di una spinta a ritrovarsi per sempre.
Ma alla fine la condizione esistenziale, la sua autobiografica alterità, resterà immutata a marcare una vita segnata come quella di un eroe romantico ottocentesco: pochi giorni prima di morire, Borroughs scriveva sul suo diario: «come può un uomo che vede e sente non essere triste?».
Guadagnino ha girato il film a Cinecittà, ricostruendo la Città del Messico degli anni Cinquanta negli studi di via Tuscolana. La scelta del regista è stata di tradurre in immagini la prosa di Borroughs in modo quasi fisico, carnale, ma restando nel limbo di una dimensione, queer appunto, che nel caso di Eugene non si schiera immediatamente, restando ambivalente. Per rendere l’itinerario sentimental-amoroso di Lee&Allerton il regista di “Chiamami col tuo nome” e di “Challengers” mescola letteratura e musica contemporanea, beat-generation e Nirvana, horror e fantascienza, riti sciamanici e radici allucinogene come l’ayahuasca, che dà corpo e rappresentazione a desideri reconditi e più evidenti, dalla solitudine alla carnalità.
Ma, come altre volte in Guadagnino, la bravura narrativa ed estetica, ricca di citazioni cinefile (Kubrick su tutti) e non, rischia di diventare, almeno a tratti, un algido esercizio di stile, non trasformando le ossessioni di Borroughs e del suo protagonista in autentiche passioni. (Michele Gottardi)
Voto: 6
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Love
Regia: Dag Johan Haugerud
Cast: Andrea Bræin Hovig, Tayo Cittadella Jacobsen, Marte Engebrigtsen, Lars Jacob Holm, Thomas Gullestad
Durata: 119’

Dopo “Sex” e prima di “Dreams” (anche se in Italia è uscito dopo), “Love” costituisce la seconda anta di una trilogia che il regista norvegese Dag Johan Haugerud dedica ad amore e sentimento, attraverso un punto di osservazione, disinibito e aperto, proprio degli scandinavi.
Presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2024, “Love” è stato definito dallo stesso regista un film utopico, poiché «riguarda il tentativo di raggiungere l’intimità sessuale e mentale con gli altri senza necessariamente conformarsi alle norme e alle convenzioni sociali che governano le relazioni. Con l’intera trilogia, il mio obiettivo principale è stato quello di far capire che è possibile immaginare nuovi modi di pensare e comportarsi».
Marianne (Andrea Bræin Hovig), una oncologa pragmatica, e Tor (Tayo Cittadella Jacobsen, che tradisce le sue origini italiane, se non venete), un infermiere molto dedito alla sua professione e incline alla compassione, lavorano nello stesso ospedale di Oslo e, col tempo, hanno sviluppato una sincera amicizia, fatta di confidenze su relazioni amorose e sessuali: entrambi condividono la scelta di evitare relazioni convenzionali.
Una sera, dopo un appuntamento al buio, Marianne incontra Tor sul traghetto. Tor, che spesso passa lì la notte in cerca di incontri fortuiti con altri uomini, le racconta di esperienze di intimità spontanea e di importanti conversazioni. Incuriosita da questa prospettiva, Marianne inizia a mettere in discussione le norme sociali e si chiede se tale intimità casuale possa essere un’opzione anche per lei.
Lo sguardo di Haugerud è sociale, quasi etnografico. La mdp spazia, indaga, registra le diverse reazioni dell’umanità più varia non solo di fronte all’amore e alla sessualità, nelle loro diverse declinazioni, ma anche davanti alla malattia, il welfare e il lavoro. E sullo sfondo, ma non troppo, Oslo e le isole del fiordo, con la penisola di Nesodden.
Come in precedenza, il regista costruisce il film attraverso dialoghi serrati e momenti di puro silenzio, quasi elegiaco, alternando i toni da melodramma con intermezzi tra l’ironico (ci sono battute e dialoghi tranchant come quella della dottoressa che ha scelto di fare urologia perché “i sentimenti hanno sede nel basso ventre” o le provocatorie spiegazioni iniziali dell’amica guida sui monumenti di Oslo) e l’ingenuo (la ricerca continua del comodino Ikea) che lo rendono meno coerente di “Dreams”, non a caso vincitore dell’Orso d’oro a Berlino 2025. (Michele Gottardi)
Voto: 6,5
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La gazza ladra
Regia: Robert Guédiguian
Cast: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Grégoire Leprince-Ringuet
Durata: 101’

Il cinema di Robert Guédiguian riesce sempre nella magia di accogliere e di accudire. Non è solo perché il regista francese ha, ormai, cresciuto una vera e propria famiglia cinematografica con gli stessi interpreti che, da anni, diventano i suoi personaggi (anzi, le sue persone). O perché la tela delle sue storie è quasi sempre Marsiglia, quartiere di L'Estaque.
È quella capacità di accordare temi politici (la precarietà economica, il tramonto degli ideali, il conflitto con le giovani generazioni) e amicizia; urgenze sociali e solidarietà che sgorga, spesso, inaspettata. E, a proposito di armonie, il suo nuovo film “La gazza ladra” (un titolo bellissimo) principia proprio da un negozio di musica allagato da due ladri maldestri.
Un incidente che sarà “il battito d’ali di una farfalla” sulla vita di Maria (Ariane Ascaride). Che ha due grandi passioni: le ostriche (e, in generale, quei piccoli piaceri che danno sapore alla vita) e suo nipote, precoce talento musicale, per cui ha noleggiato un pianoforte e pagato alcune lezioni dal più bravo maestro della città. Ma il suo lavoro (accudisce con amore alcuni anziani del quartiere, tra cui l’ex professore in carrozzina Monsieur Moreau/ Jean-Pierre Darroussin) non le permetterebbe di affrontare quei costi. Né il marito Bruno (il solito, massiccio, Gérard Meylan), con una pensione ridicola che perde puntualmente a carte, può aiutarla.
E, allora, come una gazza, nasconde nel proprio nido il resto delle spese che fa per conto dei suoi vecchietti. Gli spiccioli rubati diventano assegni contraffatti e tutto precipita. Ma il vento del mare non porta sempre tempesta.
Robert Guédiguian cita Victor Hugo (“La povera gente” che richiama, a propria volta, il suo “Le nevi del Kilimangiaro”) in questo dramma al sole di Marsiglia che non ha bisogno di scene madri e non cede mai all’afflizione. Anzi, il romanticismo sociale di Guédiguian qui si fa ancora più dolce, smussa gli angoli di “Gloria Mundi” e “La casa sul mare” e diventa quasi gioioso (perché, in fondo, la vita è una festa e allora: che la festa continui! - per parafrasare il suo ultimo film).
E mentre le giovani generazioni si affannano in lavori inappaganti, girandole amorose e ossessione per l’“argent” (però, con l’eccezione di un’inaspettata, dolcissima, dichiarazione d’amore alla cassa di un supermercato), Maria si accontenta del suo catino mezzo vuoto a forma di piscina, Monsieur Moreau del suo branzino impanato, un anziano marito di accompagnare la moglie in una illusione di gioventù. Fugaci luccichii, spicchi di felicità per la gazza ladra salvata da un gesto d’amore. (Marco Contino)
Voto: 7
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