Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 23 gennaio

Timothée Chalamet è Bob Dylan nel film di James Mangold “A complete unknown”. Jean-Stéphane Sauvaire tratteggia il lato oscuro di New York in “Città d’asfalto”. Torna la famiglia Rovelli in “10 giorni con i suoi”. In sala anche “Luce”, opera seconda della coppia Luzi – Bellino. Torna in sala, dal 26 al 28 gennaio per il Giorno della Memoria, il miglior film del 2024: “La zona di interesse” di Jonathan Glazer

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "La zona di interesse"
Il film "La zona di interesse"

“A complete unknow” racconta i primi anni di carriera del menestrello di Duluth, interpretato da un convicente Timothée Chalamet (candidato all’Oscar): dall’anonimato alla “svolta elettrica. “Città d’asfalto”, adattamento dell’omonimo romanzo dell’ex paramedico americano Shannon Burke, è una corsa allucinata nella notte di New York, con Tye Sheridan e Sean Penn.

Fabio De Luigi e Valentina Lodovini sono ancora papà e mamma Rovelli, ma “10 giorni con i suoi” cede alla stanchezza.“Luce” è un dramma della solitudine e dello straniamento, anche se lo sguardo indulge alla maniera. Preziosa l’interpretazione di Marianna Fontana.

“La zona di interesse” di Jonathan Glazer è un film agghiacciante e imperdibile: torna in sala per tre giorni. Se qualcuno se lo fosse perso può (e deve) rimediare.

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A complete unknown

Regia: James Mangold

Cast: Timothée Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbaro

Durata: 141’

Il film "A complete unknown"
Il film "A complete unknown"

Il film di James Mangold, il cui titolo deriva da un verso di “Like a Rolling stone”, brano chiave del film e del passaggio alla fase rock dell’ex-menestrello, segue l'arrivo del diciannovenne Bob Dylan a New York nel 1961, alla ricerca del suo eroe, un Woody Guthrie malato e semiparalizzato.

Viene accolto dalla scena folk newyorkese (lo stesso Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez) che riconosce il suo talento. Trova ingaggi nei club del centro e diventa presto un fenomeno, finendo presto sotto contratto con la Columbia.

Mangold ne traccia un biopic a suo modo, particolare, in cui le canzoni hanno un ruolo più importante dei fatti della vita, segue l’ascesa di Dylan, le sue forti relazioni nel mondo della musica folk e la sua definitiva transizione al rock, confondendo i suoi fan e deludendo la comunità del Greenwich Village che lo aveva accolto a braccia aperte.

Ma sarebbe riduttivo limitare il film, tratto dal libro di Elijah Wald “Dylan Goes Electric!” e approvato in fase di sceneggiatura dallo stesso Dylan, alla scelta che fece scandalo al festival folk di Newport del 1965.

Perché invece, ben oltre la dialettica plugged/unplugged, la frase su cui si incardina il film è quella tra la prima ragazza Sylvie e il giovane Bob: “Chi vorresti essere? Tutto ciò che non vogliono che io sia”.

Perché questo è stato ed è Bob Dylan, un artista difficilmente sintetizzabile in un’etichetta, una corrente, un movimento, sino al premio Nobel non ritirato. Spocchioso, scostante, fragile ed egoista, sentimentale e insieme algido, anche a costo di buttare a mare amicizie e storie d’amore, quelle iniziali quanto quella con Joan Baez, il personaggio di Mangold rispecchia bene i ruoli e le sfaccettature dell’ex ragazzo del Minnesota, al secolo Robert Zinnerman, figlio e nipote di ebrei esuli da Odessa.

Che dapprima si mostra anticonformista cavalcando la protesta antinucleare, la battaglia dei diritti degli afroamericani e il pacifismo, poi sente stretta e conformista la stessa libertà dell’essere contro e va verso il rock, per cercare di essere sempre più avanti, diverso, altro dagli altri.

Il film è un gioiellino di sceneggiatura e va al di là di certe sfasature e licenze, culminando in un finale altrettanto trasgressivo in chiave hollywoodiana – finisce col presunto fiasco di Newport che per Dylan è invece un successo – senza apoteosi finale, ma con le didascalie finali che aprono le porte al successo universale di Dylan e alle rivisitazioni della loro relazione controversa da parte di Joan Baez in “Diamonds & Rusts”.

Altro punto fondamentale di “A complete unknown” è il ruolo di Timothée Chalamet che canta e recita (il film va visto assolutamente in lingua originale) con una voce impostata e straordinariamente… dylaniana. Ma anche Ed Norton è impeccabile nella parte di Pete Seeger, il mentore sedotto e abbandonato, quanto Monica Barbaro in quella di Joan Baez. (Michele Gottardi)

Voto: 7,5

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Città d’asfalto

Regia: Jean-Stéphane Sauvaire

Cast: Sean Penn, Tye Sheridan, Katherine Waterston, Michael Pitt, Mike Tyson

Durata: 125’

Il film "Città d'asfalto"
Il film "Città d'asfalto"

Il titolo del film e del romanzo dello scrittore ed ex paramedico americano Shannon Burke riecheggia il più celebre film “Giungla d’asfalto” di John Huston, anche se il titolo internazionale del film di Jean-Stéphane Sauvaire fa riferimento anche ai corpi neri, Black Flies.

I protagonisti, infatti, sono vestiti di nero e volano a salvare la gente, a New York City: sono i paramedici del FDNY, che fa parte del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, dotato di ambulanze che attraversano la città per soccorrere soprattutto un sottoproletariato fatto di aggressioni gratuite, guerra per bande, overdose e crisi tossiche, parti clandestini, follie quotidiane e altri episodi che solo possono accadere in una vita destrutturata.

E come nel film di Huston, il sottobosco delle strade della metropoli per eccellenza, la Grande Mela, diventa il teatro tragico qui non più di azioni politiche o di speculazione, ma di pura sopravvivenza.

Il protagonista è Ollie Cross (Tye Sheridan), nome la cui assonanza evoca simbologie sacrali (Holy Cross, la santa croce), perfetto per un paramedico alle prime armi giunto a New York dall’Oregon per imparare un mestiere e cercare di prepararsi all’esame di ammissione alla facoltà di Medicina nel tugurio dove vive, a Chinatown.

Ollie viene affidato a un veterano come Gene Rutkovsky (Sean Penn), con cui durante le corse adrenaliniche per i quartieri dell’Est Side, a Brooklyn e dintorni, doppiamente a rischio, il giovane novizio scopre in prima persona il fascino e l’alienazione di un lavoro che oscilla tra la paura e la compassione e sconfina nell'ambiguità etica.

Perché quando sei convinto di lavorare per “far stare meglio le persone”, il rischio di considerarsi talmente importante da sentirsi immortale, superiore a ogni vincolo, norma o burocrazia, è costante. Soprattutto se lavori con Rutkovsky, cui Sean Penn presta la sua maschera sofferta e rugosa, segnata da una vita personale difficile e professionale complicata.

Una maschera ormai manierata, quella di Penn, che ormai mostra sempre la stessa espressione – ghigno sarcastico e sguardo sperduto e disilluso – a scavalco dei diversi film in cui appare, qui contrapposta a quella più discreta di Sheridan: ma, più in generale, a essere manierato è tutto il film di Sauvaire, in cui i topoi classici del thriller (la notte cupissima, la città metropolitana e insidiosa, il dolore come costante esistenziale) si uniscono a quelli della vita in prima linea notturna di medici e paramedici resi noti da tante serie, anche qui con dovizia di sangue e particolari per stomaci forti, personaggi al limite della società o interni al FDNY prevedibilmente razzisti o banalmente menefreghisti, compreso il cameo di Mike Tyson, che lasciano un senso di déjà vu. (Michele Gottardi)

Voto: 5,5

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10 giorni con i suoi

Regia: Alessandro Genovesi

Cast: Fabio De Luigi, Valentina Lodovini, Dino Abbrescia, Giulia Bevilacqua

Durata: 98’

Il film "10 giorni con i suoi"
Il film "10 giorni con i suoi"

Torna al cinema la famiglia Rovelli con un nuovo “10”. Dopo il primo film (10 giorni senza mamma) e il suo sequel natalizio (10 giorni con Babbo Natale), Carlo (Fabio De Luigi) e Giulia (Valentina Lodovini) - con i loro tre figli che, nel frattempo, sono cresciuti, film dopo film, davanti ai nostri occhi – sono i protagonisti del nuovo “10 giorni con i suoi”, commedia familiare ambientata in Puglia dove la primogenita sta per trasferirsi con il fidanzato.

Qui i Rovelli sono ospitati dai futuri suoceri (Dino Abbrescia e Giulia Bevilacqua) in una masseria da favola, ma la gelosia di Carlo per la figlia e una notizia shock che riguarda Giulia saranno fonte di guai ed equivoci.

Il terzo capitolo di questa saga familiare (diretta ancora una volta da Alessandro Genovesi) punta sull’effetto cartolina (magnifiche le location pugliesi) per nascondere la fiacchezza di una storia nella quale sembra non credere, per primo, il mattatore Fabio De Luigi, ottuso, malinconico e, naturalmente, maldestro.

Fatta eccezione per la sequenza della rievocazione religiosa che sfrutta la sua comicità un po’ slapstick, “10 giorni con i suoi” strappa pochi sorrisi e si trascina stancamente fino alla fine con la promessa (o la minaccia) di un altro sequel. (Marco Contino)

Voto: 5

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Luce

Regia: Silvia Luzi – Luca Bellino

Cast: Marianna Fontana - con la voce di Tommaso Ragno

Durata: 93’

Il film "Luce"
Il film "Luce"

Non ha nome la protagonista di “Luce”, secondo film di finzione, dopo “Il cratere”, firmato da Silvia Luzi e Luca Bellino.

Una privazione di identità che rispecchia ciò che si vede sullo schermo: una giovane donna inchiodata (come le pelli che lavora in conceria) a una vita che sembra non appartenerle. La sua è una solitudine infinita: l’unica autentica relazione è quella con una voce telefonica maschile (Tommaso Ragno). Chi c’è (se c’è) all’altro capo del cellulare? È un affetto reale oppure è una proiezione della stessa protagonista che fantastica di fughe al mare, di fidanzati stilisti e di pasta fatta in casa per gli ospiti?

“Luce” si muove in direzioni opposte: non solo stilisticamente (tra documentario – soprattutto nelle sequenze girate in fabbrica – e finzione) ma anche in questo suo girovagare avvinghiato alla sua protagonista che sembra volersi affrancare da una vita fuori fuoco ma, allo stesso tempo, rimane piombata dentro a quella realtà, incapace di uscirne, se non con l’immaginazione.

Sullo sfondo c’è un rapporto genitoriale complesso (che era al centro del film precedente) anche se “Luce” (titolo, evidentemente, antifrastico) è, infine, un dramma sullo straniamento, l’alienazione e la solitudine.

Se questi temi sono restituiti in modo anche convincente, sia nella commistione tra realtà e immaginazione dello sguardo registico sia nella interpretazione di Marianna Fontana da cui la macchina da presa non si scolla mai, è, piuttosto, la programmaticità della riflessione a depotenziare il film in una dimensione un po’ manieristica e anche abusata nella consueta rappresentazione di un contesto sociale senza speranza.

E anche il doppio finale (bastava la suggestiva inquadratura di una televisione-specchio) è il segno di una maturità autoriale ancora da coltivare, anche se la strada è quella giusta. (Marco Contino)

Voto: 6,5

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La zona di interesse

Regia: Jonathan Glazer

Cast: Sandra Huller, Christian Friedel

Durata: 105’

Il film "La zona di interesse"
Il film "La zona di interesse"

Quante volte il cinema ha tradotto in immagini lo sterminio del popolo ebraico? Sembra che ogni nuovo film sulla Shoah sia l’ultimo, quello definitivo.

Il regista britannico Jonathan Glazer, con “La zona di interesse” (Grand Prix a Cannes, 2 Oscar), dimostra che ci sono ancora altri, agghiaccianti, modi di raccontare il genocidio e che, forse, ciò è successo durante la Seconda Guerra Mondiale non deve e non può smettere di alimentare la memoria collettiva.

Glazer lo fa attraverso una rigorosa scelta stilistica: la paura più grande non nasce, forse, dalla immaginazione di qualcosa di indicibile, senza che sia necessario vederlo con gli occhi?

Nell’osservare come un mirmecologo le sue “formiche” (la famiglia del comandante Rudolph Höss, capo del campo di concentramento di Auschwitz che visse, realmente, in una villetta costruita al confine con il lager insieme alla moglie e ai suoi cinque figli), nella loro disumana vita quotidiana e quasi bucolica, sordi e ciechi a ciò che sta accadendo dall’altra parte del muro nonostante i rumori sinistri (latrati di cani, urla, spari, fischi di treni in arrivo), i bagliori di fiamma dei forni crematori e il fumo costante dai camini, Glazer sublima il concetto di indifferenza, lo eleva a monito universale (quanti fragili steccati o labili confini separano, anche oggi, paradisi da inferni, in una sconcertante tenacia ermetica di occhi e orecchie?).

Ma l’Eden della famiglia Höss (un giardino rigoglioso, la piscina estiva) non è solo spregevole nella sua sfida alla Storia, è persino vergognoso per come si alimenta dalla morte: la padrona di casa si appropria di pellicce e beni confiscati agli ebrei, la terra è concimata dalla cenere dei corpi, i bambini giocano con i denti d’oro dei deportati. Come è stato possibile?

Ma è tutto vero, anche se non si vede. Ma si sente: con un lavoro sul “sonoro” che non ha eguali nel cinema recente.

La quotidianità del male diventa, ad un certo punto e con una doppia capriola temporale, un’altra quotidianità, quelle delle donne delle pulizie che, oggi, custodiscono le vestigia museali di Auschwitz.

L’unica concessione ad una narrazione esplicita ha le forme distorte di immagini virate in negativo, secondo la tecnica della termografia: una giovane partigiana polacca che lascia alcune mele per i prigionieri ebrei. In quelle macchie di colore sullo sfondo nero di un incubo senza fine risiede la rara fonte di calore e di luce di un film agghiacciante e necessario da cui è impossibile non uscire turbati.

“La zona di interesse”, indicato da gran parte della critica internazionale come uno dei migliori (se non il migliore) film del 2024, torna nuovamente in sala dal 26 al 28 gennaio in occasione del Giorno della Memoria: se qualcuno se lo fosse perso può (e deve) rimediare. (Marco Contino)

Voto: 9,5

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