Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 27 febbraio

Vincent Lindon, padre sconfitto, in “Noi e loro” delle sorelle Coulin. L’esordio promettente di Giovanni Tortorici con “Diciannove”. Un grande Kieran Culkin in “A Real Pain” di Jesse Eisenberg. La Cina in trasformazione nel film di Guan Hu “Black Dog”. Igor Bezinovic firma il documentario “Fiume o morte!”

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "Noi e loro"
Il film "Noi e loro"

Era in Concorso a Venezia nel 2024: “Noi e loro” di Delphine e Muriel Coulin insinua il radicalismo politico all’interno di una famiglia e la distrugge. Vincent Lindon ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra del Cinema.

Luca Guadagnino produce, l’esordiente Giovanni Tortorici dirige: “Diciannove” racconta di un “giovane Holden” palermitano in cerca di un proprio posto nel mondo.

Due cugini sui luoghi della Shoah in Polonia per toccare con mano il dolore. Jesse Eisenberg dirige e interpreta un dramma sulla autentica sofferenza in “A Real Pain”: strepitoso Kieran Culkin, Oscar in pectore come miglior attore non protagonista.

L’amicizia tra un uomo e un cane sullo sfondo della Cina demolita dal progresso. È “Black Dog” di Guan Hu.

“Fiume o morte!” di Igor Bezinovic è la ricostruzione dell’impresa di D’Annunzio tra ironia e verità storica.

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Noi e loro

Regia: Delphine e Muriel Coulin

Cast: Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon, Arnaud Rebotini

Durata: 110’

«Quando ricevi una quantità di amore ragionevole dai tuoi genitori. Quando non hai mai vissuto la guerra o sofferto la miseria, come puoi ridurti così? Sapevo che mio figlio stava prendendo una strada sbagliata. Forse avrei dovuto spiegargli che quando cominci a parlare di un “loro” e di un “noi”, quando odi qualcuno che non è come te, le cose non possono che precipitare. Può solo finire male. Tu pensi di difendere la tua cultura, ma in realtà stai combattendo contro ogni altra cultura. Finirai per creare due fazioni, pensi che stai difendendo la tua ma tutto ciò che vuoi è distruggere l’altra. Tutto ciò che vuoi è la guerra. Non rimane che la violenza. E mio figlio è stato così stupido da crederci».

Sono le parole strazianti e potenti di Pierre, un padre che si sente fallito, impotente, colpevole. Vincent Lindon (come sempre gigantesco: Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) le pronuncia in tribunale in una delle sequenze più toccanti di “Jouer avec le feu” (distribuito in Italia con il titolo “Noi e loro”), diretto dalle sorelle Delphine e Muriel Coulin.

Pierre, un passato da attivista sindacale, sempre dalla parte dei lavoratori, ha cresciuto due figli da solo dopo la morte della moglie. C’è sempre stato, nonostante i turni di notte alla ferrovia, con il suo amore incondizionato.

Ma Fus (Benjamin Voisin), il figlio più grande, si è fatto ingoiare da un gruppo di estrema destra ed ora paga le conseguenze di quella sciagurata affiliazione. “Jouer avec le feu” è uno di quei film dritti e solidi e il monologo di Lindon è lancinante.

Non c’è solo la denuncia della deriva fascista della società francese; si ritrova nel film una riflessione profonda sul ruolo genitoriale, su quello che un padre poteva fare e non ha fatto. «Quando ho realizzato che stava frequentando quella feccia di estrema destra – continua il monologo - ho cercato di fare qualcosa ma era troppo tardi. Quindi, mi sento colpevole. Non l’ho fermato in tempo. Forse sono il vero colpevole qui».

Le sorelle Coulin - dopo aver firmato un film tutto al femminile (“17 ragazze”, su un gruppo di compagne di scuola che decidono di restare incinta contemporaneamente) - si concentrano ora, curiosamente, su una realtà declinata solo al maschile, riuscendo a intercettare, nello scontro padre-figlio, un conflitto più profondo (e votato al fallimento) in seno ad una società francese sempre più frammentata con la differenza che Pierre ha il coraggio di assumersi la propria responsabilità, al contrario delle forze che si agitano sotto la superficie infiammabile del Paese.

La sincerità della riflessione e alcuni momenti emozionanti (la ricordata arringa in tribunale) compensano qualche schematismo di troppo nella dinamica familiare, ma è pur sempre vero che un film come “Noi e loro” in Italia non saremmo in grado di realizzarlo (vedere per credere “Familia” di Francesco Costabile). (Marco Contino)

Voto: 6,5

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Diciannove

Regia: Giovanni Tortorici

Cast: Manfredi marini, Vittoria Planeta, Dana Giuliano

Durata: 109’

 

Il film "Diciannove"
Il film "Diciannove"

“Diciannove” è l’opera prima che Giovanni Tortorici ha diretto sotto il nume tutelare produttivo di Luca Guadagnino. Il titolo rimanda all’età del protagonista Leonardo (Manfredi Marini), un “giovane Holden” palermitano che cerca disperatamente un proprio posto nel mondo. Pur affamato di vita, è uno spirito asociale, tanto assolutista nella sua ossessione per la letteratura trecentesca, quanto precario e fragile nell’animo.

Dalla Sicilia si trasferisce a Londra e poi a Siena dove si rintana in un appartamento studentesco, tra incubi, sprazzi di sfrontatezza (il più delle volte ricacciati indietro) e pochissimi legami (la sorella e un cugino).

Leonardo è l’alfiere di una terra di mezzo lontana dal mondo degli adulti ma anche da quello dei suoi coetanei: una dimensione in cui si colloca anche l’estetica del film, movimentato da split screen, divagazioni fumettistiche e buchi neri sullo schermo che, di tanto in tanto, assume l’aspetto del cellulare di Leonardo. Si respira un senso di spaesamento giovanile in un film diretto da un autore da seguire da vicino. (Marco Contino)

Voto: 6,5

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A Real Pain 

Regia: Jesse Eisenberg

Cast: Jesse Eisenberg, Kieran Culkin

Durata: 90’

Il film "A Real Pain"
Il film "A Real Pain"

“A Real Pain”: una sofferenza autentica. È quella, universale e senza fine, legata alla memoria dell’Olocausto. Ma è anche quella, più intima, delle vittime, dirette e indirette, di quella tragedia o di massacri che, in qualche modo, l’hanno replicata (il genocidio in Ruanda).

Ed è, ancora, quella di individui che hanno scelto percorsi autodistruttivi come se il passato, che ha risparmiato la loro generazione, ritornasse sotto altre forme di dolore e di disagio.

O è un generico e strisciante male di vivere comune a molti. Jesse Eisenberg fa i conti con queste variazioni sulla sofferenza (senza giudicarle e imprimere un ordine gerarchico) raccontando la storia di due cugini, ebrei americani, che partono per la Polonia, terra d’origine dell’amata nonna da poco scomparsa, scampata alla Shoah grazie a “mille miracoli”. Vogliono visitare la sua casa d’infanzia al termine di un tour turistico sui luoghi dello sterminio ebraico.

David (lo stesso Eisenberg) è un uomo concreto, nevrotico, con moglie e figlio; Benji (Kieran Culkin: la sua prova è da Oscar e lo vincerà) è un’anima fragile e imprevedibile, perennemente sospeso tra gli abissi della depressione ed entusiasmi contagiosi.

Hanno un rapporto di odio e amore: l’uno, in fondo, vorrebbe essere un po’ l’altro. Nel cercare la matrice dolorosa che li accomuna (quella storica, eredità della nonna), David e Benji prendono coscienza, in realtà, di un’altra autentica e intima sofferenza attraverso un road movie esistenziale che ha il grande pregio di non indulgere al didascalico. Eisenberg non esprime alcun monito relativizzante (come se la Shoah potesse assorbire tutto il dolore del mondo) ma, anzi, conferma, da regista, una sensibilità notevole per le vite a pezzi come erano quelle dei protagonisti della miniserie “Fleishman is in Trouble” (interpretata da Eisenberg insieme a Claire Danes) che apriva baratri dentro alle esistenze di ebrei newyorchesi apparentemente appagati e conciliati.

Non manca l’ironia (e anche qualche frecciatina a certi tour un po’ freddi sui luoghi dell’Olocausto) e il finale, così aperto, è un epilogo in perfetta sintonia con il registro di questa piccola e malinconica parabola sul dolore(Marco Contino)

Voto: 6,5 

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Black Dog

Regia: Guan Hu

Cast: Zhangke Jia, Eddie Peng

Durata: 110’

Il film "Black Dog"
Il film "Black Dog"

Documento crudo e reale sulla Cina che si evolve, tra povertà ataviche e neoliberismo strisciante, “Black Dog” di Guan Hu è una storia molto neorealista e insieme melò sulle trasformazioni in atto nella Cina di qualche anno fa e che ancora si trascinano.

Siamo nel 2008, poco prima delle Olimpiadi di Pechino, quando Erlang, uscito di prigione condannato a dieci anni per un omicidio colposo, reo di aver ucciso un ragazzo facendo evoluzioni pericolose in moto, torna a Chixia, la piccola città natale a nord ovest del Paese, ai margini del deserto di Gobi.

Deciso a mettere fine alla sua vita da vagabondo, tra rockstar e acrobazie a due ruote, l'uomo cerca un'occupazione per potersi mantenere. Il governo, in vista dei Giochi Olimpici, ha deciso di ripulire la città, abbattendo condomini fatiscenti per poi creare nuovi insediamenti urbanistici moderni. La premessa però è di acchiappare tutti i cani randagi che girano in enormi branchi liberi, per essere soppressi.

Erlang viene incaricato di trasportare questi animali dopo la loro cattura, e finisce in un giro di combattimenti clandestini. Quando incontra Mashing, un cane randagio nero incrociato con un lupo, tra i due nasce un legame molto forte. Entrambi in lotta per la sopravvivenza, cercheranno anche di ritrovare l’amore per la vita.

Film molto d’essai (miglior film nella sezione “Un certain regard” a Cannes 2024), ma mai troppo autoreferenziale come un certo gusto cinefilo autorizzerebbe, “Black dog” mostra anche una visione tutto sommato positiva, facendo intuire che il vecchio adagio “finché c’è vita, c’è speranza” è tutt’altro che privo di verità.

Al di là del simbolismo evidente e a tratti ridondante, tutto gira attorno alla semplice allegoria tra uomini e cani, anzi animali tra tigri, lupi, scimmie e uccelli vari: lo zoo e il circo sono un’altra evidente metafora della condizione esistenziale degli uomini, tra gabbie aperte e chiuse, vagabondaggio, assenza di certezze e di identità. Crudo, realistico, ma aperto al futuro. (Michele Gottardi)

Voto: 6

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Fiume o Morte!

Regia: Igor Bezinovic

Durata: 112’

Il film "Fiume o morte!"
Il film "Fiume o morte!"

La macchina da presa indugia sui passanti del Korzo, l’arteria pedonale principale di Rijeka, terza città della Croazia, per gli italiani Fiume.

Il regista Igor Bezinovic chiede a tutti se sanno chi sia stato Gabriele D’Annunzio: metà lo ignorano, l’altra metà lo ricorda come un fascista (per un ex pioniera di Tito era “un fascistone”) o peggio, un “un pazzo amante della cocaina con i denti marci”. Insomma non un buon ricordo quello del Vate, da queste parti. E tutto risale alla sua impresa del 1919-1920, quando, dopo aver lanciato le celebri invettive sulla “vittoria mutilata”, perché l’Italia non aveva ottenuto tutto quanto sottoscritto dal trattato di Londra (cioè Fiume e la Dalmazia), D’Annunzio partì coi suoi legionari da Ronchi e prese possesso di Fiume per sedici mesi, fino al trattato di Rapallo che la costituì in città libera sotto il controllo di Roma, poi inglobata nel regno d’Italia dal 1924.

Bezinovic al primo successo internazionale (il film ha vinto il Tiger d’oro e il premio Fipresci a Rotterdam 2025), decide di riportare alla luce la vicenda, costruendo un documentario che alterna le immagini dei cinegiornali alla fiction con attori non professionisti, e non solo le figure di secondo piano o i legionari, ma in primis quella del Vate, interpretato da diversi protagonisti, che hanno in comune solo un gran naso e una lucida calvizie.

A tratti il linguaggio grottesco e surreale riecheggia “M- Il figlio del secolo” di Joe Wright, ma qui siamo più vicini all’autocoscienza di un popolo che esorcizza il passato con un tocco goliardico, partendo dalle rovine lasciate dall’occupazione di quel tempo, ovvero tutti i ponti, che la dividevano dalla Jugoslava Sušak, fatti saltare in aria.

Insomma, tra Storia e memoria prevale il divertissement, ma in una chiave didascalica tutt’altro che disprezzabile.

Può stupire che a un abitante di Rijeka di 42 anni venga l’idea di fare un film così e per giunta parlato in fiumano alternato al croato. Ma scorrendo le immagini e la curiosa narrazione emerge che la città, come la vicina Istria, ha mantenuto intatta la sua identità attraverso otto dominazioni diverse negli ultimi secoli che le hanno fatto conservare il dialetto popolare, nonostante una lingua ufficiale diversa. E questo nel film si vede bene ed è una caratteristica importante e fondativa. (Michele Gottardi)

Voto: 7

 

 

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