Battiston protagonista di “Storia di una notte”

Nuovo film per l’attore udinese, che interpreta un dramma familiare. L’opera ambientata a Cortina prova a raccontare amore e sofferenza

Marco Contino
Giuseppe Battiston in una scena del film
Giuseppe Battiston in una scena del film

Giuseppe Battiston “vive altrove” (parafrasando il titolo del suo primo film da regista uscito nel 2023) ma resta legato a un Nord Est che, oltre ad avergli dato i natali (udinese, classe 1968, si è diplomato al liceo classico Stellini), fa spesso da sfondo alle storie che interpreta.

Di recente è stato l’ispettore Stucky in tv con le sue indagini ambientate a Treviso e dintorni e, prima, ha partecipato al lungometraggio di esordio (“Billy”) di Emilia Mazzacurati, figlia di Carlo, nel ruolo di un mite pompiere, con casa galleggiante sul fiume Bacchiglione. Il prossimo 30 aprile uscirà al cinema “Storia di una notte” (liberamente tratto dal romanzo di Angelo Mellone, Nelle migliori famiglie), per la regia di Paolo Costella, realizzato con il contributo della Regione Veneto e con il sostegno della Veneto Film Commission. L’attore è il protagonista di un dramma familiare durante una logorante Vigilia di Natale a Cortina.

Battiston, qualche settimana fa ha rivestito il ruolo di giurato del Premio Mazzacurati, un riconoscimento che valorizza “l’essere personaggio”.Come descriverebbe il suo “Piero” in “Storia di una notte”?

«Piero è un uomo che porta con sé le cicatrici di un rapporto familiare che si è deteriorato a seguito di un evento tragico, che ha segnato, nella sua vita e in quella della sua ex moglie [interpretata da Anna Foglietta], un vero e proprio spartiacque. L'armonia che avevano creato è svanita, ora ci sono solo silenzi e l'imbarazzo di vecchie consuetudini: un Natale in famiglia diventa una lunga giornata dove ogni gesto pesa e la neve crea un manto di doloroso silenzio. Ma in quella giornata un incidente sugli sci occorso al figlio Denis riunisce di nuovo quella famiglia: Piero ed Elisabetta si ritrovano, si guardano di nuovo negli occhi, uniti e distanti, a riscoprire e ad ascoltare insieme l'eco del loro grande amore perduto da qualche parte. Non c'è più ma c'è stato, e quella consapevolezza è, per loro due, più di un ricordo, li fa sentire presenti, li fa sentire vivi».

Come si entra in un personaggio che sopporta un dolore così lancinante?

«Non c'è una ricetta specifica per far vivere il dolore di un personaggio, né giova ad un attore provare una autentica sofferenza per rappresentarla. Al contrario, per comunicare quei sentimenti così sfaccettati, così rarefatti è importante essere estremamente presenti: a parlare per noi sono sguardi e movimenti appena percettibili, una piccola esitazione degli occhi, il breve ritardo di una parola che esce con fatica dalla bocca. Il mio è stato un lavoro particolare: mi sono messo in ascolto di me e dei miei colleghi, perché quelle situazioni si costruiscono meglio insieme».

Il film è ambientato a Cortina ma lei, anche per origine, sembra avere, in generale, uno stretto legame con il Nord Est. Questo territorio ha rappresentato un limite per “fare cinema” o, piuttosto, è stata una risorsa rispetto ad un ambiente che, da sempre, ruota intorno a Roma?

«Spesso si discute sul fatto che in Italia ci sono due forme di cinema: quello che si fa a Roma e quello che si fa fuori da Roma. E quello che si fa fuori da Roma diventa immediatamente provincia. Non "provinciale", però. Credo che i mille territori, i mille modi che abbiamo di parlare in Italia raccontino inevitabilmente che siamo un paese fuori dall'ordinario, siamo mille civiltà in un luogo solo, peraltro piuttosto piccolo. Quindi divisi e, perché no, diversi. Spesso fa tristezza pensare che questo immenso patrimonio culturale, storico, umano, venga visto come una realtà minore o che possa interessare poche persone di piccoli territori. Di piccolo c'è solo quello sguardo».

Lei passa da personaggi tormentati ad altri più candidi e ingenui. Preferisce i primi o i secondi?

«Preferisco mettermi in gioco! Ho sempre cercato di fare cose diverse, di dare vita a figure su cui non avevo mai lavorato. Cercherò sempre di dare vita a personaggi per me nuovi e inediti perché questo è il senso del mio lavoro e perché così sono fatto io».

Le piacerebbe girare un altro film da regista dopo “Io vivo altrove!”?

«Mi è piaciuto moltissimo stare dietro alla macchina da presa e ho amato alla follia quell'avventura straordinaria che si chiama montaggio, due esperienze davvero importanti, profonde. È difficile far capire quanto il nostro lavoro sia così intimamente artigianale. Mi piacerebbe girare un altro film, raccontare un'altra storia, ma per ora mi accontento di pensarci. E di scriverla».

Qual è il suo “altrove” in cui ama rifugiarsi quando non è sotto i riflettori?

«Se ve lo dicessi non sarebbe più un rifugio».

Il trailer

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