Gorizia – Nova Gorica e le ferite della storia

Quella che una volta era chiamata la “piccola Berlino” sarà capitale duale della cultura 2025. Divisa nel dopoguerra fra Italia e Jugoslavia, ora si può considerare unita anche se collocata in due nazioni. La tragica eredità del fascismo e del comunismo

Paolo Malaguti
La piastra che indicava il confine tra Italia e Slovenia, nel punto in cui passava il muro con inferriata che divideva le due città fino al 2004
La piastra che indicava il confine tra Italia e Slovenia, nel punto in cui passava il muro con inferriata che divideva le due città fino al 2004

Da lunedì 20 sarà nelle edicole il nuovo numero della rivista bimestrale “Vita e pensiero”, edita dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Paolo Malaguti, veneto di Monselice (Padova), uno dei più affermati scrittori e narratori italiani, in un articolo approfondisce l’appuntamento cruciale per la cultura del Nord est nel 2025: l’anno di Nova Gorica e Gorizia come capitali europee della cultura, una candidatura unica, come se fossero un unico luogo, capace di contenere tante storie diverse. E di raccontarle.

L’articolo è profondo, lungo, tutto da leggere: un manuale di accesso a un evento che ha nello stesso tempo radici e ali, storia e prospettiva. Si intitola “Gorizia-Nova Gorica e le ferite della storia” ed è una introduzione molto centrata per l’operazione di Go!2025, che è ormai all’orizzonte (cerimonia ufficiale di apertura l’8 febbraio, ovviamente in entrambe le città)

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Qui l’articolo completo

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Paolo Malaguti

La capitale europea della cultura viene designata dal 1985, per accendere un faro su una città dell’Unione, favorendo in essa lo sviluppo di progetti che dovrebbero fornire uno shock virtuoso, grazie al quale la  città in questione potrà godere di un volano  positivo per i tempi successivi. Quasi sempre le città nominate in un anno sono più d’una: due, come nel 2019, quando Matera condivise l’onore con Plovdiv, o tre, come nel 2024, con Bad Ischl, Tartu e Bodø.

Il 2025, però, riserba una sorpresa, perché al fi anco di Chemnitz  (in Sassonia) non c’è semplicemente un’altra città, e non ce ne sono semplicemente altre due. C’è una città duale, binaria, divisa e unita: Nova Gorica-Gorizia. Tale scelta appare interessante, perché invita a una riflessione che proverò a organizzare su due livelli, uno storico politico, l’altro simbolico e semantico. Nel sito che le due città hanno dedicato agli eventi programmati (go2025.eu) si legge un saluto che è

di fatto un programma: «Benvenuti nella capitale europea della cultura transfrontaliera»; quindi non due capitali per due città, ma una capitale che trae senso dalla sua natura di frontiera, e ci invita a guardare a uno dei confi ni più insanguinati d’Europa non come periferia, vicolo cieco, ma come incrocio, luogo di crescita.

Questa scelta arriva mentre in più parti dell’Unione (si pensi all’Afd in Turingia e all’Fpo in Austria) crescono i partiti di estrema destra, euroscettici e più o meno dichiaratamente xenofobi; mentre su altri confini europei tornano i solchi delle trincee e i crateri dei bombardamenti; mentre, infine, il Medio Oriente soffre la più grave crisi militare degli ultimi decenni, e la prospettiva di una convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi appare utopica.

Nova Gorica-Gorizia ci indica che le ferite della Storia possono rimarginarsi, e che quindi, nonostante il presente, abbiamo il diritto, anzi la responsabilità, della speranza.

Ancora nel 1508 Gorizia fu oggetto delle contese tra la Serenissima, che rivendicava il possesso della città dopo la morte senza eredi dell’ultimo conte, e l’Impero di Massimiliano I.

La disfatta veneziana di Agnadello nel 1509 risolse la questione, e Gorizia da lì rimase saldamente in mano agli Asburgo, con la sola parentesi delle guerre napoleoniche. Quando nel 1866 il Veneto entrò nel Regno d’Italia,

Francesco Giuseppe, imperatore dal 1848, diede avvio a un programma di germanizzazione e slavizzazione dei ruoli di influenza (quadri burocratici, stampa, istruzione…) nelle aree a maggior rischio di focolai irredentisti (Trentino, Dalmazia, Küstenlande).

Come è facile intuire, queste misure crearono fratture nelle comunità multietniche, esasperarono i nazionalismi e rafforzarono le correnti irredentiste, specie nelle zone urbane.

Gorizia, fino a questi anni, resta comunque una cittadina ai margini dei grandi scacchieri politici d’Europa. È nel 1915 che il suo nome, assieme al nome di tanti luoghi a lei prossimi (Sabotino, Isonzo, Bainsizza…), entra nell’immaginario europeo. E di nuovo pare che il destino di questa città sia quello del dualismo, della contraddizione.

Infatti da un lato la narrazione ufficiale della Grande Guerra, iniziata nel novembre del ’18 e completata dal fascismo, farà della conquista di Gorizia del ’16 una tappa verso la vittoria ineluttabile: generazioni di studenti italiani hanno studiato La Sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi, ed ecco, per farsi un’idea, gli ultimi versi del poemetto:

“Sei nostra! Sei nostra!”

sembra gridare l’assalto.

La Città è apparsa,

apparsa a tutti nel piano,

dalle vette raggiunte:

e tende le braccia,

e chiama,

lì, prossima.

Tutta rivelata,

nuda e pura nel sole

di ferragosto,

e libera! Libera!

Sotto la cupola celeste

del cielo d’Italia

sotto le Giulie,

l’ultime torri

smaglianti della Patria.

Ma d’altra parte, visto che la sesta battaglia dell’Isonzo, o battaglia di Gorizia (4-17 agosto 1916), ebbe un costo complessivo di circa centomila perdite tra morti e feriti da entrambe le parti, ci fu chi non si accontentò delle verità ufficiali, e così la canzone O Gorizia tu sei maledetta nacque e visse la sua vita clandestina, visto che cantarla nei momenti sbagliati significava beccarsi un’accusa di disfattismo e correre il rischio del plotone di esecuzione. Nel 1964 Michele Straniero cantò una strofa di O Gorizia al Festival di Spoleto: ci furono tafferugli in sala, e in una successiva replica il cantante ottenne una denuncia per vilipendio alle forze armate. Ecco un brano della canzone:

O Gorizia tu sei maledetta

da ogni cuore che sente coscienza:

dolorosa ci fu la partenza,

e il ritorno per molti non fu.

Generali o voi che dormite

con le mogli sui letti di lana,

schernitori di noi carne umana

questa guerra ci insegna a punir.

Traditori signori ufficiali

che la guerra l’avete voluta

scannatori di carne venduta

e rovina della gioventù.

La Gorizia della prima guerra è dunque motore di una doppia memoria, e il mancato dialogo tra le due letture di quell’evento traumatico ma generativo della coscienza italiana continua a costituire un fardello nella nostra identità nazionale.

Le cose, in termini di narrazioni plurali, non migliorarono negli anni successivi. Sotto il fascismo Gorizia, come tutte le altre zone multietniche del Paese, subì l’italianizzazione forzata dei toponimi prima, dei cognomi dopo (1927), arrivando nel 1931 al divieto assoluto di insegnamento dello sloveno nelle scuole pubbliche e religiose.

Con l’invasione italiana della Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale e i conseguenti rastrellamenti, anche un numero imprecisato di goriziani di lingua slovena venne internato nei campi di concentramento italiani. Poggio, Gonars, Arbe, Visco sono alcuni dei luoghi che ospitarono questi campi, che ancora oggi, almeno nella memoria mainstream, noi italiani facciamo fatica a tenere a mente, mentre è senz’altro più semplice ricordare e visitare il campo nazista della risiera di San Sabba, perché ogni narrazione di sé corre sempre il rischio di essere fi n troppo autoassolutoria.

L’occupazione (o liberazione, a seconda delle narrazioni) dell’esercito titino del maggio del 1945 fu altrettanto feroce: furono 665 i goriziani deportati, molti di loro finirono in campi e carceri, e da lì scomparvero nel nulla, altri furono gettati nelle foibe. Solo poche decine dei 665 sopravvissero.

I trattati di Parigi del 1947 segnarono una nuova tappa per Gorizia, divisa in una parte italiana e una jugoslava (i quartieri a nordest della città, che ospitavano circa il 15% della popolazione). Fu allora che la città divenne la “piccola Berlino”, spaccata in due da un muro che tagliava l’abitato e che assumeva valore simbolico nella Piazza della Transalpina, di fronte alla stazione ferroviaria della linea che congiungeva Jesenice a Trieste. Quella stazione, primo emblema della Mitteleuropa asburgica, divenne una sorta di arteria mozza, immagine eloquente dell’Europa delle ideologie che si fanno muro.

I quartieri rimasti all’interno della Jugoslavia tra gli anni Cinquanta e Sessanta conobbero una crescita urbanistica rapidissima, dando vita a Nova Gorica, esempio interessante di architettura popolare socialista, sviluppatasi in parte per le reali esigenze di una regione trovatasi improvvisamente senza le infrastrutture e i servizi del polo urbano rimasto nella Gorizia italiana, e in parte sull’onda di forti investimenti dello stato jugoslavo, desideroso di opporre alla città “oltre-cortina” un modello alternativo e ben visibile di città “nuova”, già dal nome Ancora oggi il confine italo-sloveno passa per la Piazza della Transalpina.

Non c’è più il muro, sul selciato dei blocchi di pietra rammentano dove passava, e una lastra di metallo riporta le date 1947-2004, l’anno di edificazione e l’anno di smantellamento, quando la Slovenia entrò nell’Unione.

Chiarite, o, se non altro, esposte le ragioni storiche che spingono ad applaudire alla nomina della “città duale” Nova Gorica-Gorizia a capitale della cultura, dedico ancora qualche riga alle ragioni simboliche che possono rallegrarci di questa scelta.

Spesso si corre il rischio di attribuire al termine “cultura” una valenza definita, statica, perché lo si intende nella sua accezione retrospettiva: la cultura di un Paese sarebbe un’eredità, una tradizione di realtà materiali e immateriali (lingua, monumenti, arte, cibo, paesaggi…) che ci identificano e di cui ci dobbiamo prendere cura. Io stesso cado vittima di questa visione, che, se non sbagliata, è perlomeno riduttiva: quando mi immagino il ministro della Cultura nell’esercizio delle sue funzioni, me lo immagino a Pompei, o che ne so, all’inaugurazione di una mostra d’arte del Rinascimento.

La valenza primaria della parola “cultura” ha a che fare invece con il futuro, a partire dalla radice latina, participio futuro di colere, che sta per “coltivare”, “avere cura”.

Cultura dunque come “ciò che è giusto coltivare, ciò di cui vogliamo prenderci cura”. In questa accezione, cultura non è prodotto, ma processo, è il solco aperto nel quale una società trova (e ritrova) il senso per cui qualcosa è importante (o no). Da insegnante questo approccio dinamico mi piace, perché non si tratta di consegnare alle nuove generazioni il fardello del “nostro patrimonio”.

Fare cultura significa accettare la sfida di un’attribuzione di senso alle cose, che necessita e giustifica, a monte, l’attribuzione di senso a noi stessi. Nova Gorica-Gorizia mi pare un’ottima capitale della cultura, per la sua natura contraddittoria, che ci obbliga a capire “da che parte siamo”, a guardare al di là del muro, e, infine, a chiederci cosa ci va bene della nostra parte e cosa invece preferiamo della parte che non ci è stata data in sorte.

Ancora, una capitale della cultura costituita da due città con una storia del genere simboleggia quella componente di scandalo che l’apprendimento dovrebbe sempre portare con sé: troppo spesso ancora oggi nella communis opinio di insegnanti e genitori la “buona classe” è la classe ordinata, che ascolta e fa sue le lezioni, in una trasmissione passiva di saperi.

Tante volte a scuola ho sentito utilizzare l’aggettivo “vivace” con un’accezione negativa… Visto che ha alla sua radice il latino vivus, forse l’aggettivo che meglio si configura come contrario di “vivace” è “smorto”… La cultura ha a che fare con il disordine, la problematicità: non può lasciare “smorti”, perché cambia nel profondo, suscita dubbi, resistenze.

Fare cultura è stare in equilibrio su una linea, sul solco del contadino/agricola che cerca di far crescere qualcosa avendone cura, ma al contempo sulla linea instabile di confine tra un prima e un dopo. Su questa faglia sofferente e spesso sanguinosa la cultura, quella vera e profonda, può crescere, al riparo da crisalidi identitarie e formalismi inerti.

Bene quindi che l’Europa non abbia paura di guardare ai confini aperti di Nova Gorica-Gorizia, ricacciando indietro la tentazione di nuovi muri, seguendo gli idoli degli identitarismi e della paura dell’altro.

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Paolo Malaguti (Monselice 1978) insegna letteratura italiana e latina nei licei. Dal 2009 ha pubblicato romanzi e saggi con diverse editrici (Santi Quaranta, Marsilio, Neri Pozza, Solferino), gli ultimi con Einaudi (Il Moro della cima, 2022 - Premio Mario Rigoni Stern; Piero fa la Merica, 2023 - Premio Manzoni; Fumana, 2024). Dirige dal 2021 la scuola di scrittura Alba Pratalia. Collabora dal 2022 con «L’Osservatore romano».

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