Il Novecento ha la voce di Ferdinando Camon
Filippo Cerantola firma la prima monografia dedicata alla vita e all’opera dello scrittore padovano. E lo colloca dove è giusto che sia: tra i più grandi
È strano che solo ora arrivi una prima monografia interamente dedicata alla vita e all’opera di Ferdinando Camon, che è a tutti gli effetti uno dei più importanti scrittori italiani del secondo Novecento, anche secondo gli studiosi stranieri. E non perché ha vinto il Premio Strega e il Campiello alla carriera, non per le centinaia di traduzione delle sue opere (prime tra tutte quelle di “Un altare per la madre) ma perché – come scrive Gian Mario Villalta nell’introduzione a questa monografia – ha aiutato molti italiani (Villalta parla di sé ma per indicare tanti) a conoscere qualcosa di se stessi, oltre che della realtà.
L’autore di “Camon” (Apogeo, pp 288, 15 euro) è Filippo Cerantola, studioso veneto che aveva già dedicato un libro a Meneghello. Ma qui l’opera è più ambiziosa perché non si tratta di analizzare alcune opere, ma di provare a mettere un ordine complessivo in una produzione vasta iniziata più di cinquant’anni fa, nel 1970, quando Ferdinando Camon era un giovane insegnate poco più che trentenne, capace di sorprendere il mondo letterario italiano con un primo romanzo, “Il quinto stato”, che era già un’opera di straordinaria maturità.
Cerantola nel suo racconto intreccia continuamente vita e opere di Camon perché nello scrittore padovano vita e scrittura sono estremamente legate tra loro, anche dal punto di vista della riflessione teorica. Come ha scritto Giovanni Raboni – citato da Cerantola– “Ferdinando Camon è soprattutto un romanziere, uno di quegli esseri singolari e infrequenti per i quali impastare fantasia e cronaca, conciliare libertà e struttura, aderire nello stesso tempo alle inflessioni del reale e degli astratti oscuri richiami del proprio linguaggio costituiscono un’attività misteriosamente naturale”.
Così il racconto del Veneto contadino del “ciclo degli ultimi” è letteralmente impastato con l’esperienza diretta di chi è nato nelle campagne più profonde della provincia di Padova, ha sperimentato sulla propria pelle l’estrema povertà, l’estrema fatica, l’estrema sofferenza di quel mondo e poi una volta uscitone grazie allo studio e alla cultura ha sentito come suo dovere raccontarlo, pur sapendo che proprio quel mondo avrebbe rifiutato questo racconto.
Lo dice molto bene nell’introduzione Gian Mario Villalta, che pure appartiene a una generazione diversa che di quel mondo contadino ha fatto esperienza indiretta, cogliendone gli ultimi rivoli: Camon non ha solo raccontato la morte del mondo contadino, ha raccontato anche il senso di colpa rimasto in chi da quella condizione è uscito, ha raccontato lo spaesamento, di fronte a questa uscita, il prezzo che è stato pagato. Ma non con la nostalgia che Pasolini – che volle firmare la presentazione di “Il quinto stato”– sbagliando, voleva trovarvi, ma con l’autentica sofferenza di chi si è salvato, ma non può dimenticare che quel mondo è comunque parte di lui.
Filippo Cerantola affida molto del suo racconto alla voce stessa di Camon, utilizzando i romanzi, i saggi, gli articoli, le interviste che documentano la lunga vita dello scrittore padovano. Non lo fa con intento agiografico, non vuole comporre un santino, ma far emergere i temi, le impronte di una scrittura mai pacificata, di un’esistenza che ha sempre scelto di guardare il mondo da una prospettiva diversa, andando spesso contro le soluzioni più semplice, pur soffrendo per l’isolamento che tutto questo spesso ha comportato.
Camon – come si comprende leggendo il libro di Cerantola– è sempre stato una sorta di voce dissonante: come cattolico, come uomo di sinistra, come narratore delle campagne, come indagatore della psicanalisi, come analista del terrorismo. Eppure, a ben vedere, i suoi “cicli”, che Cerantola raggruppa nei diversi capitoli del libro (Il ciclo degli ultimi – da Il quinto stato a La mia stirpe –, il ciclo del terrore – Occidente e Storia di Sirio –, il ciclo della famiglia – La malattia chiamata uomo, La donna dei fili) vanno a toccare il cuore della modernità, partendo dalla morte di un mondo per arrivare alle contraddizioni sostanzialmente insanabili che governano quello nuovo.
Una capacità di lettura del reale, come ricorda nella postfazione Massimo Onofri, che si ritrova in Pasolini, in Sciascia, in pochi altri. Appunto, in Camon. —
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