I soldati sul Grappa: una storia
“Il pendio dei noci” è la prima opera di fantasia dello storico Gianni Oliva. Nel libro che segna il suo passaggio alla narrativa c’è il ritratto dell’Italia in guerra
Apparentemente l’ultimo libro di Gianni Oliva segna il passaggio alla narrativa dello storico contemporaneista noto per i suoi libri sul terrorismo (“Anni di piombo e di tritolo”), e sul periodo ’40-’45 (“Foibe”, “I vinti e i liberati”). “Il pendio dei noci” (Mondadori, 252 pagg., 19 euro) racconta la vicenda di un legionario francese che si trova sul monte Grappa durante la Prima guerra mondiale, con l’incarico di tradurre i messaggi tra i comandi italiani e quelli francesi, che devono coordinare le loro truppe spedite a dare manforte al regio esercito dopo la disfatta di Caporetto.
Siamo nei primi mesi del 1918 e bisogna resistere al dilagare degli austriaci sulla linea del Piave. Julien, questo il suo nome, è un uomo che, come tutti quelli che sono passati nella Legione straniera, ha un passato oscuro, ne ha viste di tutti i colori e ha sviluppato una robusta corazza. Nel deserto del Marocco ha trascorso sedici anni si è scontrato con i berberi, ha ucciso e visto morire i suoi compagni. Per lui le trincee del Grappa sono un’altra faccia di quella morte che ha conosciuto nel Magreb. Sofferenze, atrocità, giovani vite immolate senza un perché.
Eppure a Julien quegli alpini, ragazzi del ’99 o poco più vecchi, che lo guardano con rispetto perché capiscono che dietro a quella pelle bruciata dal sole africano c’è una di quelle storie che si preferisce dimenticare, fanno nascere uno strano sentimento. Sono alpini della Val Varaita, della Val Sangone, valli di quel Piemonte che si apre verso la Francia, valli di contrabbandieri, chiuse e dimenticate dove si parla un dialetto che è stato il suo.
Perché Julien in uno di quei paesi di montagna ci è nato. Partorito da una zingara di passaggio con una carovana di girovaghi e morta subito dopo, il bambino è stato preso in consegna dal parroco del paese, don Fornasio, un prete di buon cuore e di idee pratiche, che non sta tanto a seguire la dottrina evangelica se bisogna aiutare un cristiano, che lo ha battezzato con il nome di Giuliano, lo ha cresciuto e ha cercato di avviarlo al sacerdozio per dargli l’unico futuro che chi nasce in quei posti può avere, se non vuole fare il contadino.
A Giuliano però quei luoghi stanno stretti, vuole vedere il mondo e vorrebbe farlo con una ragazza che ha conosciuto. Ma qualcosa, che non raccontiamo, va storto e Giuliano abbandona la sua valle e si arruola nella Legione straniera diventando il Julien che conosciamo sulle falde del Grappa, quando inizia la vicenda. Qui incontra due alpini poco più che ragazzi, Valdo e Domenico, e il capitano Maglioli, coi quale nasce un rapporto che a poco a poco, durante i mesi di guerra, le granate e gli assalti all’arma bianca, scava nel profondo la dura pelle del legionario e che porterà a un colpo di scena prima della fine della guerra e del ritorno alla sua valle.
Perché allora diciamo che il libro di Oliva è un’opera che solo apparentemente sembra di narrativa? Perché dietro l’intreccio che anima le pagine lo storico Oliva costruisce uno spaccato di un momento della storia d’Italia. Ci sono le azioni di guerra - Oliva insegna Storia delle istituzioni militari, per cui su quello che racconta ci si può fidare a occhi chiusi – c’è il ritratto del Paese di allora attraverso le classi sociali rappresentate in trincea, un Paese in cui i ceti erano ancora molto distanti tra loro; ci cono i contadini, mezzi analfabeti, povera carne da macello, e ci sono gli intellettuali, qui rappresentati dal capitano Maglioli, futurista che invocava nelle piazze la guerra come igiene del mondo, e che nelle trincee del Grappa ha capito che erano solo parole vuote e irresponsabili e ci sono i comandi militari, spesso ottusi e distanti.
È una lezione di storia, quella che Oliva confeziona nel ‘Pendio dei noci’ che questa volta passa attraverso la lente di un racconto sotto il quale scorre un aspetto che risuona spesso nei libri dello storico torinese, l’attenzione ai delusi, ai vinti, a chi finisce dalla parte sbagliata. Qui però si intravede alla fine la luce di un riscatto, una licenza cui lo studioso sembra felice di approdare, quasi una via di fuga provvidenziale dal racconto dello storico che deve stare ai fatti della storia, spesso crudi e disperati, lontani dall’happy end che regala la fantasia.
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