Il soldato Ungaretti e l’orrore della guerra che si fa poesia di vita

“Il porto sepolto” fu stampato nel 1916 a Udine a cura di Ettore Serra, in un’edizione di sole 80 copie. Per l’autore erano appunti privati. «M’è rimasto il rimorso d’avere ceduto anch’io alla vanità»

Paolo Ruffilli

Il porto sepolto fu stampato a Udine nel 1916, in edizione di 80 esemplari a cura di Ettore Serra. Lo stesso Ungaretti racconta come la cosa avvenne per lui inaspettatamente, mentre pensava a tutt’altro in un momento di riposo lontano dalla linea di guerra: «Questo era l’animo di quel soldato che se ne andava per le strade di Versa, portando i suoi pensieri, quando fu accostato da un tenentino. Non ebbi il coraggio di non confidarmi a quel giovane ufficiale che mi domandò il nome, e poi si fece timido, e gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola, e ch’era il mio modo di progredire umanamente. Gli stolti risero quando più tardi sostenni la medesima cosa, che cioè la poesia non poteva essere se non pura, venendo da un atto purificatore. Comunque sia, la poesia si riconoscerà sempre alla prerogativa della purezza. Ettore Serra portò con sé il tascapane, ordinò i rimasugli di carta, mi portò, un giorno che finalmente scavalcavamo il San Michele, le bozze del mio Porto sepolto».

Nelle intenzioni di Ungaretti, quegli appunti «non erano destinati a nessun pubblico. Non avevo idea del pubblico, e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi, avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione – anche quello di chi, come noi, si fosse trovato in pieno nella mischia. Di più, m’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante, mi sarebbe sembrata un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più umile, avevo inteso dare un segno di completa dedizione. … Non dico che quella pubblicazione non mi facesse piacere, ma pure m’è rimasto il rimorso d’avere ceduto, in quelle circostanze, anch’io alla vanità.»

Fu dunque un’edizione privata e tuttavia il libro ottenne subito la convinta adesione dei pochi lettori, colleghi scrittori e intellettuali, ai quali arrivò. Una copia del Porto sepolto era stata destinata a Guillaume Apollinaire, che apprezzò subito il libro. La critica avrebbe in seguito parlato di elusione definitiva e originale del canto nella prova di Porto sepolto e, a proposito della scansione della sua lingua, come di un’istanza di sillabazione fonica risultato della frantumazione stessa dell’io.

Ungaretti fa esperienza di una lingua che nei suoi elementi perentori, che erano canonizzati nella tradizione letteraria, si è dissolta insieme alla risolutezza della coscienza, già prima nella tormentata vicenda biografica del poeta, ma a maggior ragione in occasione delle terribili esperienze della guerra.

Ne è un riscontro esemplare San Martino del Carso, dal Valloncello dell’Albero isolato il 27 agosto 1916: “Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro // Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto // Ma nel cuore / nessuna croce manca // È il mio cuore / il paese più straziato”.

Ungaretti stesso se ne renderà consapevole qualche anno più tardi e fornirà la sua spiegazione per il linguaggio e le caratteristiche formali che caratterizzano Il porto sepolto: «Era la prima volta, nonostante molti esperimenti in precedenza tentati – e non dico fosse merito mio, forse era merito delle circostanze – che l’espressione cercava di aderire in modo assoluto a ciò che doveva esprimere. Non c’era nessuna divagazione: tutto era lì incombente sulla parola da dire: “io ho da dire questo, come posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con quell’unica parola che lo dica nel modo più completo possibile?” Si sa che tra la parola e ciò che si vuol dire c’è sempre un divario enorme, anche quando magari sembri piccolissimo. La lingua corrisponde male a quello che si ha in mente e si vorrebbe dire: sicuro, non corrisponde, se non assai approssimativamente. Dirò dunque che cercavo l’approssimazione meno imprecisa, la riduzione, per quanto possibile, di quel divario ineliminabile. In questa nuova lingua il libretto cantava la sofferenza non eroica, ma anonima, di tutti quelli che erano in guerra, in una guerra forse necessaria, certo orrenda.» 

La legge dell’inversamente proporzionale è un’esperienza che attraversa tutto il libro, nella considerazione quasi di sorpresa della forza con cui la morte riesce a scatenare la vita. Il rapporto tra vita e morte si inverte: la morte assume un significato positivo di fronte alla vita e non viceversa. Ed è la caratteristica del Porto sepolto e l’effetto potente che ha su Ungaretti e su noi lettori: la terribile realtà della guerra scalda per reazione parole di vita e d’amore, come in Veglia, da Cima Quattro il 23 dicembre 1915: “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.”

Due mostre in dialogo

L’ampio progetto dedicato a Giuseppe Ungaretti fa da battistrada alla Capitale europea della cultura, “Go! 2025”. Ideato e curato da Marco Goldin (in foto), è promosso dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dai Comuni di Gorizia e Monfalcone, con la partecipazione di PromoTurismoFVG e l’organizzazione di Linea d’ombra (www.lineadombra.it, call center per le prenotazioni 0422 429999).

Si compone di due mostre in contemporanea, aperte dal 26 ottobre 2024 al 4 maggio 2025. La prima si svolge a Gorizia, nel Museo di Santa Chiara (“Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo. Poesia pittura storia”), ed è il racconto di Ungaretti sul Carso nei suoi quasi due anni trascorsi lì. Un racconto attraverso nuovi documentari e parti multimediali, ricostruzioni di ambienti bellici, vetrine con oggetti e uniformi e quasi un centinaio di quadri di artisti contemporanei che hanno dipinto i luoghi carsici e la figura stessa del poeta. Pittura, questa volta storica, che è l’assoluta protagonista della parte del progetto di Monfalcone (“Da Boccioni a Martini. Arte nelle Venezie al tempo di Ungaretti sul Carso”).

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