“Italianità adriatica”: così Raul Pupo ne restituisce la complicata storia, dalle origini alla catastrofe
Pupo, storico rigoroso, macina da anni saggi sulle terre dell’Adriatico orientale, uno dei laboratori della violenza politica del Novecento

Una storia complicata. Che suscita interesse proprio perché complessa. E che ha fatto e continua a far discutere, dividere e, oggi forse un po’ meno, scontrarsi. La storia è quella delle terre dell’Adriatico orientale, uno dei laboratori della violenza politica del Novecento, cui Raoul Pupo ha dedicato il suo ultimo lavoro, ‘Italianità adriatica’ (Laterza, 240 pagg., 20 euro). Il sottotitolo - Le origini, il 1945, la catastrofe - illustra le tappe principali del libro, che procede per ulteriori scansioni, che vedremo fra poco.
Prima ricordiamo che Pupo, storico rigoroso, macina da anni saggi sul tema: da ‘Adriatico amarissimo’, ‘Fiume città di passione’, ‘Trieste ‘45’, con cui ha raccolto quell’interesse attorno a un tema che è ormai al centro di una vasta pubblicistica e che è entrato nelle librerie anche a partire da un suo lavoro, ‘Foibe’, che risale al 2003.
Italianità adriatica
Con questo libro Pupo guarda alla questione dal punto di vista del concetto di italianità adriatica, la cui particolarità è di essere italianità di frontiera, nata cioè in una terra di incontri e sovrapposizioni, molteplice per storie, lingue e culture.
Attenzione, ci ammonisce Pupo: frontiera non va confusa con confine, anche se spesso questi due termini vengono usati come sinonimi. Il confine divide, la frontiera invece è un territorio in cui si entra in contatto e ci si mescola, e l’Altro non è per definizione ostile, ma può essere l’altra faccia di Sé.
Il Settecento
Per portarci in un racconto che si snoda lungo due secoli, Pupo prende le mosse dal Settecento, secolo in cui l’area che va dalla Dalmazia all’Isonzo è un grande mosaico sottoposto al controllo politico della repubblica di Venezia e dell’impero d’Austria.
Un’area in cui comunica in friulano e veneziano accanto ai dialetti sloveni mentre altri, come gli uscocchi, parlano un dialetto che contiene in nuce gli elementi del serbo croato.
Quella che fa Pupo non è una storia delle terre adriatiche, ma una carrellata che segue un unico filo, l’italianità appunto, scandita da una serie di tappe.
Vediamole in sintesi: la formazione dell’italianità adriatica, l’italianità prima minacciata poi irredenta, quindi vittoriosa, tiranna, imperiale; e ancora rovesciata, subordinata, gettata nell’abisso, negata, infine riscoperta e poi, e siamo all’oggi, composta in una visione di frontiera che con la fine dei confini torna a una dimensione sovranazionale.
Ma andiamo alle origini. La cifra unitaria dell’italianità adriatica è linguistica e culturale, poiché l’italiano è la lingua delle élites che hanno al centro dei loro commerci il mare e non la terra. Venezia e Trieste sono i centri riconosciuti di un’italianità laica e i cui esponenti non di rado sono legati tra loro da vincoli massonici.
La nascita dei nazionalismi
In questo periodo prevale il particolarismo locale, ma con il 1848 cambia tutto. Nascono i nazionalismi. A Trieste nel 1848 nessuno scende in piazza, la città è ancora leale all’Austria; solo pochi anni dopo, però, il presidente del consiglio comunale Francesco Hermet si riconosce come italiano. In effetti le guerre di indipendenza italiane e poi la nascita del regno d’Italia hanno posto un problema di identità agli italiani di frontiera. Ma quello verso la nazione non è un percorso lineare in nessun angolo dell’Adriatico.
Fiume è culturalmente è italiana, parliamo della metà dell’Ottocento, ma la città si trova bene sotto la corona ungherese, mentre in Istria la situazione è diversa, qui si sente ancora la presenza della Serenissima. E si resta alquanto sorpresi ad apprendere che quando gli Slavi cominciano a parlare di una loro nazione, in Dalmazia come a Fiume, lo fanno usando l’italiano, perché l’ambiente culturale di riferimento è quello italiano. Lo slavismo, fondato sul concetto del narod, del popolo, è clericale e antiliberale, e si pone come riscatto dei popoli oppressi. Oppressi, è chiaro, dagli italiani.
Si percepiscono dunque gli albori del conflitto che scaturirà dallo scontro che partendo dalla dimensione sociale si alimenterà di quella nazionale e che arriverà fino al Novecento, segnando la disintegrazione della italianità adriatica.
Nel marzo del 1914 dalle colonne di Edinost i nazionalisti sloveni lanciano uno slogan, Trst je naš, che resterà famoso, e in cui si legge: “Non fermiamoci fino a quando noi sloveni non governeremo su Trieste”.
Trieste
Parole che nella Trieste cosmopolita, diventata nel frattempo città italianissima, fanno serpeggiare la paura per un’immagine distopica che resterà a lungo, le orde di barbari pronti a calare dall’altipiano per distruggere la civiltà italica.
È la religione della patria, che ha un effetto dirompente in una città divisa tra la passione nazionale slovena e quella italiana, la quale si trova di fronte a un dualismo che Carlo Schiffrer definiva freudiano: rimanere asburgica e ricca, oppure abbracciare l’Italia e andare incontro a un futuro nebuloso?
Scipio Slataper, in anticipo di un secolo, fa suo uno sguardo europeo e propone di fare di Trieste una città ponte tra mondi diversi, anche se poi ci ripenserà e vestirà il grigioverde partendo per la guerra.
Il racconto di Pupo prosegue con le tappe successive, che riassunto in un tweet suonerebbe come fascismo, foibe, esuli. Ma qui ci fermiamo, ritenendo che siano quelle più risapute. Utile, alla fine di un saggio di elegante divulgazione, l’indicazione di una serie di siti web cui accedere tramite Qr code.
Riproduzione riservata © il Nord Est