La mummia di Lenin, Ezio Mauro e la Russia tra dinastie e ideologie
Un viaggio per raccontare com’è diventato il Paese oggi. Partendo dal mausoleo dove tutto finisce e comincia

Che senso ha raccontare Lenin per capire la Russia d’oggi, dove la maglietta più alla moda tra i ragazzi nei parchi e nelle notti della movida ha al centro il faccione di Stalin? Guardare a Lenin oggi appare un atto d’amore per quel mondo sempre meno amabile, ma anche un tentativo di tener legata l’anima russa all’Europa, a quell’uomo che dalla Russia era fuggito vivendo anni d’esilio in Occidente, che scriveva in inglese, in tedesco, in francese, leggeva l’italiano e il greco. Quell’uomo la cui leggenda cresce nella morte, nell’imbalsamazione del corpo offerto in ostensione al popolo, come accadeva nel secolo scorso con i dittatori. Lenin la cui morte è oggetto di mistero, a tal punto che i diari dei medici che ne seguirono la malattia sono ancora inaccessibili, protetti dall’interdetto senza spiegazioni del Cremlino. Ezio Mauro ha visitato i luoghi di Lenin, arrivando a quel mausoleo dove tutto finisce e comincia. E lo racconta nel suo nuovo libro “La mummia di Lenin”, pubblicato da Feltrinelli. Il mausoleo certo, ma anche la dacia a Gor’kij, il Cremlino che “da solo impersonava l’eterno principio russo di realtà” e chi lo conquistava dominava il Paese, e più indietro lo Smol’nyj, la stazione Finlandia.
Pietroburgo, prima di tutto. La città creata dal più progressista degli zar perché la Russia guardasse a Occidente più che a Oriente: città imperiale dove nasce la rivoluzione bolscevica. Perché è a Pietroburgo, e non a Mosca, che nascono i nuovi fermenti: in quell’intreccio di sangue, ambizione, tradimento, cospirazioni dove “il dna dell’impero russo sembra essersi mantenuto intatto” come scrive Anna Zafesova nel suo libro dedicato alla città. Pietroburgo, più precisamente lo Smol’nyj, il palazzo che in Russia è sinonimo di potere. È lì che Lenin arriva, tornato dall’esilio. Lev Trotzkij appena lo vede si alza in piedi: “Questa stanza è vostra” gli dice, come lo si dice all’incarnazione del comunismo bolscevico, all’uomo di cui tutti parlano e che molti non hanno mai visto, lo pseudonimo della rivoluzione: lui, Lenin. Passano pochi mesi ed è lui stesso a spostare il governo a Mosca. Una scelta d’istinto che allontana il baricentro della rivoluzione dall’Europa, tradendo i fiumi ghiacciati, le perspektivy, quegli “anni d’argento” che stanno per finire, per dare inizio alla nuova era sovietica. Al Cremlino.
Ma questo libro non è una biografia di Lenin, e nemmeno la cronaca dei dieci giorni che sconvolsero il mondo. Il suo cuore sta invece nella comprensione profonda, ammirata del potere: del potere calmo, dittatoriale, privo di esibizionismo, proprio di un uomo che aveva codificato scientemente l’idea di dittatura come “governo senza limiti, non sottoposto al freno di nessuna legge e nessuna regola superiore, che si regge soltanto sulla forza” perché “non una sola questione della lotta di classe è mai stata risolta nella storia se non con la violenza”. Bisogna subire il fascino del potere, conoscerlo dall’interno, comprendere quel saper “capitalizzare sulla paura”, per poterlo raccontare sapientemente. Mostrando la forza carismatica di un uomo che, anche nel pieno della malattia, mentre viene controllato poliziescamente e tenuto all’oscuro dal suo stesso governo, lotta per indirizzarne il futuro, mettendo in guardia il partito dal pericolo del “magnifico georgiano” che lui stesso aveva elevato, nella sicurezza di poterlo controllare. Ma la storia si fa beffa della volontà umana e sarà proprio Stalin a governare e manipolare il culto di Lenin.
È poetico il racconto della morte del capo: una motoslitta parte dal Cremlino in piena notte, nevica, l’apparato del potere si precipita a rendere omaggio all’uomo che ha trasformato la rivoluzione in governo, mentre nel bosco della dacia i lupi divorano le carcasse dei cavalli predisposte per una battuta di caccia che non avverrà. Tornano in mente le parole di Turgenev al capezzale di Puškin: “Parliamo ad alta voce – e questo rumore è terribile alle orecchie giacché parla della morte dell’uomo per cui tacevamo”. Lenin muore, ma non è la sua morte a interessare Mauro, bensì la questione politica che il suo corpo determina. Quell’immortalità che si chiede, con ferocia, al medico ucraino di fissare, imbalsamando non un uomo qualsiasi ma il corpo della rivoluzione (pena la morte), forzando i limiti della vita con l’intento di creare uno spazio per il culto fondativo di un nuovo potere che vegli come autorità indiscutibile su tutta la Russia – “fissando in perpetuo il momento in cui la gerarchia politica dell’Urss si trasforma in dinastia, nel passaggio da un capo all’altro”. E se questo libro ha il pregio di farci capire la Russia d’oggi è perché sposta il fuoco: non è alla rivoluzione bolscevica o al pensiero politico di Lenin che bisogna guardare, ma alla sua morte che permette di riscrivere la storia all’indietro, al suo corpo reso eterno che dilata il potere e la violenza in qualcosa di astorico, mistico e messianico al tempo stesso, e per questo così russo. —
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