Fallaci e Biagi, il coraggio delle scelte: due libri importanti compiono mezzo secolo
I 50 anni dei libri di due giganti del giornalismo che hanno affrontato temi vitali. Il diritto all’aborto e il racconto di una generazione che ha perduto tutte le guerre
IL 1975 è l’anno di due grandi libri: “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci (1929-2006) e “Disonora il padre” di Enzo Biagi (1920-2007). Due giganti del giornalismo italiano in veste di scrittori, a tu per tu con parte della propria biografia, e la necessità di voler raccontare una storia che parli a tutti, affrontando attualità e dinamiche sociali.
Da una parte il naturale desiderio di maternità, il dubbio e le riflessioni sull’aborto, dall’altra il rapporto tra fascismo e Resistenza, visto da un’Italia rurale nata sulle ceneri del delitto Matteotti.
Perché ne parliamo? E perché sono considerati “classici”? Perché i temi che affrontano sono immortali, è la prima ragione. Hanno a che fare con il coraggio delle proprie scelte. Con la necessità del cambiamento. Con la responsabilità del vivere.
Cominciamo con Oriana Fallaci. Chi non conosce uno degli incipit più ruggenti del Novecento, specialmente se donna, come chi sta scrivendo ora? “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla”.
E così continua, indimenticabile già dalla prima pagina. Dentro “quel” libro che tutti e tutte dovrebbero leggere per entrare nel tema del dubbio; nel buio liquido e intimo del pensiero legato alla maternità.
“E se nascere non ti piacesse?”, scrive Oriana Fallaci in questa
i mpetuosa, profonda e assoluta dichiarazione d’amore per la vita, “e se un giorno tu me lo rimproverassi gridando: Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo e perché?”. “La vita è una tale fatica, bambino. È una guerra che si ripete ogni giorno”. E poi ancora: “Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via?”Oriana Fallaci scrive “subito dopo aver perduto il secondo bambino nel 1966”, come evidenzia Cristina De Stefano nell’accurato “Oriana. Una donna”, edito da Rizzoli, ed è grazie alla De Stefano che veniamo a conoscenza della carte private che contengono questa prima versione.
“Lettera a un bambino mai nato” uscirà soltanto nel 1975, quasi dieci più tardi, e la Fallaci lo modificherà, facendone il grido universale che conosciamo.
Successo immediato all’uscita; quasi mezzo milione di copie vendute in soli sei mesi, più di venti lingue come traduzione. Lo scalpore c’è, non accontenta nessuno; e perché dovrebbe?, lo sta scrivendo lei, sempre libera, indipendente, coraggiosa. Indimenticabile esempio di come si può vivere da giornalista graffiando. Siamo nel tempo in cui il dibattito è acceso, la legge sull’aborto verrà approvata tre anni più tardi, di mezzo c’è anche il socialista udinese Loris Fortuna, fa piacere ricordarlo. “Lettera a un bambino mai nato” nasce proprio in questo contesto, ma la Fallaci fa come sempre di testa sua: le è stata commissionata dall’Europeo un’inchiesta, lei in realtà va a casa e ne esce, come scrive De Stefano, “dopo quattro mesi e con un romanzo”.
E che romanzo. È ancora pubblicato, venduto, vissuto.
Se volete leggerlo lo trovate nella versione Bur, Rizzoli, e con la prefazione irruente di Lucia Annunziata, che lascia il segno pure lei. Annunziata scrive: “Avevi capito, Oriana, tanti anni prima, che la morale e la scienza non si possono dividere. Almeno di fronte alla dignità di sé”. È Oriana stessa a sottolineare: “Non sono io la donna del libro, tutt’al più le somiglio, come può assomigliarle qualsiasi donna del nostro tempo, che vive sola e che lavora e che pensa”.
Il 1975 è l’anno anche di “Disonora il padre”, di Enzo Biagi, che esce già con l’azzeccato sottotitolo “Il romanzo della generazione che ha perduto tutte le guerre”, e continua attualmente a essere un titolo Rizzoli.
Il libro, visivo e aneddotico – c’è anche un personaggio friulano tra le prime pagine, un seggiolaio stravagante che “possedeva soltanto un mantello, una roncola, e una copia della Divina Commedia che sapeva a memoria” – si presta già nel 1978 alla riduzione televisiva per la regia di Sandro Bolchi, in tre puntate, girato interamente a Bologna, e che vede interpreti come Isa Miranda, Martine Brochard, Stefano Partizi e Quinto Parmeggiani.
Racconta la storia di un ragazzo nato a Pianaccio, sull’Appennino tosco-emiliano, che per sfuggire alla coscrizione della Repubblica Sociale entra a far parte di Giustizia e Libertà e nel dopoguerra diventa caporedattore del “Resto del Carlino”.
Come scrive Lorenzo Mondo nell’edizione del 1978, “è prima di tutto la storia di un ragazzo che dalla campagna passa alla città… È la storia di una formazione che, svolgendosi sullo sfondo di eventi terribili, diventa esemplare, possibile ritratto di generazione”.
C’è la dichiarazione di guerra, ricordo di una piazza gremita, vibrante sotto le parole del Duce; c’è sempre la penna evocativa e filmica del cronista Biagi che riporta episodi come quello del bersagliere ciclista abbattuto da un tedesco all’indomani dell’8 settembre, oppure il protagonista che sale in montagna tra i partigiani alla fine del libro.
“C’erano poche nuvole gonfie da gita scolastica. Pedalavo, e cercavo di ripetere le nozioni di geografia: cirro, cumulo, nembo”.
E così conclude: “Il racconto continua. Sono curioso di vedere come vado a finire”.
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