Micheletti, il teatro senza confini

Il baritono bresciano sarà Jago in “Otello” alla Fenice: una carriera che intreccia prosa e lirica ai massimi livelli

Anna Sandri
Luca Micheletti
Luca Micheletti

intervista

Cristiano Cadoni

A vederla sfilare sul red carpet della Festa del Cinema di Roma – vestito rosa da principessa e acconciatura alla Anne Hathaway – si poteva pensare che quella fosse la scena perfetta per il finale del suo film.

Non quello che ha girato, però, che poi è una serie, ma quello che si è trovata a vivere in prima persona, volando via da Montebelluna per andare ad abitare a Londra, conquistando un Nastro d’Argento (e altri premi) con il corto “A cup of coffee with Marilyn” e infine – ma solo per ora – prendendosi un posto nella regìa di “Miss Fallaci”, la serie in otto puntate dedicata alla giovane Oriana Fallaci (interpretata da Miriam Leone) che andrà in onda su Rai1 l’anno prossimo, prodotta da Paramount e Minerva in collaborazione con la RedString del padovano Diego Loreggian. Regia di Luca Ribuoli, Giacomo Martelli e – appunto, perché di lei si parla – Alessandra Gonnella. Che, attenzione, di anni ne ha appena ventinove.

Ecco perché quell’emozione sul red carpet.

«Era il primo della mia vita, ma ci tenevo a trasmettere l’immagine di una regista giovane, glamour, a suo agio quando si tratta di apparire».

Nell’ambiente com’è stata accolta?

«Con un misto fra diffidenza, invidia, ammirazione ma anche disprezzo. Qualcuno deve aver pensato che sono arrivata lì per qualche parentela o con chissà quale percorso. Lungo il red carpet però ho visto lo sguardo di tanti ragazzi che forse hanno capito. Ho speso sei anni su questo progetto, prima il corto e ora la serie su Oriana. Sarò anche precoce, ma ho dovuto affrontare difficoltà e pregiudizi. E ho lavorato duro. Ecco, in questo senso per loro io credo di essere inspiring, un’ispirazione».

Parliamone: qual è stata la scelta vincente per arrivare dal liceo di Montebelluna a Londra e poi al red carpet di Roma?

«La scelta di vivere a Londra è figlia di un’intuizione che avevo avuto ancora prima del liceo. Al tempo non sapevo cosa sarei andata a fare, né come ci sarei stata. Oggi posso dire che aver passato dieci anni lì è stato come vivere due vite, per le conoscenze che ho fatto, per la cultura che si assorbe. Vorrei essere nata lì, è un posto stimolante, competitivo, c’è tutto quello che non potevo trovare in provincia».

La scelta del luogo, dunque. Solo quello?

«In una società così spietata è stato sorprendente incontrare persone che hanno voluto darmi qualcosa. Forse hanno percepito il fuoco che avevo dentro, il fatto che fossi autentica, che stessi rischiando. Fare quel corto in costume a Londra è stata una pazzia. E aver convinto Miriam Leone a darmi credito – al tempo avevo 24 anni ed ero totalmente sconosciuta – è stato determinante. Il suo è stato un atto di incoscienza che ha pagato. Però ancora oggi io e lei ce lo diciamo: se non così, come altro poteva emergere una ragazza in questo ambiente?».

Come e quando nasce questa passione feroce per Oriana Fallaci?

«Ai tempi del liceo ho letto “Il sesso inutile” e mi ha folgorato la figura di questa giornalista minuta e curiosa, smaniosa di arrivare e capace di smascherare tutti. A ripensarci oggi, mi ricorda tante situazioni che ho vissuto anche io, quel suo cercare contatti, i rischi che ha corso, il contrasto fra pubblico e privato. E poi era super brillante».

Però ci è voluto coraggio a insistere su un personaggio che a un certo punto è diventato molto divisivo…

«È un pericolo che ho accettato. Sapevo che potevo essere etichettata da una certa intellighenzia di sinistra, che avrei potuto incontrare difficoltà a farmi produrre. Ma a me interessava solo raccontare Oriana. E poi concentrandomi sul suo percorso formativo, sulla sua fase giovanile, il rischio si è anche ridotto. Nella serie si racconta un’Oriana giovanissima, il rapporto con quel padre che ha cercato in tutti gli uomini, il primo aborto, il suo amore ossessivo per Alfredo Pieroni, le sue lettere deliranti, prova di quanto fosse debole. Emerge un personaggio contraddittorio. Aprire quel cassetto è stato trovare un tesoro».

Che effetto le fanno le prime critiche? Qualcuno definisce la serie un po’ troppo generalista.

«Ho letto poco, devo dire, anche se qualcosa mi è arrivato. Però mi pare che sia piaciuta e che generalista non lo sia affatto. Poteva esserlo, l’abbiamo evitato mostrando una parte di Oriana che non è conosciuta e con un ritmo che non è affatto da serie generalista. Miriam è stata bravissima, non l’avete mai vista così. E poi lasciatemelo dire, l’importante è che se ne parli».

Cosa ha imparato da questo lavoro?

«Stare in una macchina seriale è diverso da fare un corto e anche un film intero. Bisogna lavorare di squadra, essere veloci, reattivi, sapere quello che fanno gli altri, rispettare i ruoli decisionali. Ci sono tante voci e non è sempre facile mettersi d’accordo, ma è un’esperienza che voglio ripetere. Ci si sente parte di un ingranaggio, ma il lavoro corale è stimolante per la scrittura e per la regia».

E a livello personale qual è il suo prossimo obiettivo?

«Vorrei fare un film mio, un lungometraggio. Una commedia romantica che faccia emergere la mia scrittura. Non in costume, ambientato fra Londra e l’Italia. Parto in salita perché le produzioni tra il Regno Unito e il nostro Paese sono rare e complicate, ma a me le cose semplici non piacciono. E ho imparato che il tempo può darmi ragione. Se ce la faccio, spaccherà, ne sono sicura».

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