San Servolo, quando l’arte dà voce alla follia: la mostra a Venezia

All’ex manicomio di San Servolo le lettere dei pazienti psichiatrici mai recapitate. Il collettivo Zeroscena le ha riportate in vita. Un lavoro che ci interroga da tanti punti di vista

Cristiano CadoniCristiano Cadoni
La mostra "Riscritti rimossi" fino al 30 marzo all'ex manicomio di San Servolo a Venezia
La mostra "Riscritti rimossi" fino al 30 marzo all'ex manicomio di San Servolo a Venezia

Il fatto è che sembra di sentirne le voci. Prima una - resto sempre quel ch’io sono, con l’assedio che mi fate - poi un’altra che arriva dal fondo del corridoio - ricordo i miei sogni passati e penso a mio padre - poi diventano tante. Si avanza cauti, ma quelle arrivano come schiaffi - a me non venne dato nulla - nel silenzio di uno spazio vuoto - i manicomi sono patiboli permanenti, sono macelli dell’umanità - sembrano colpi assestati da fantasmi e considerarlo un pensiero folle mette un brivido in più.

Ex manicomio dell’isola San Servolo, otto minuti di vaporetto da piazza San Marco. Qui nel 2022 sono sbarcati due laureandi in Arti visive allo Iuav, Elisa La Boria di San Giorgio di Nogaro e Luka Bagnoli di Rimini, entrambi classe 1998. Avevano già una laurea in Arti e spettacolo allo Iulm e nell’archivio di quello che per duecento anni, fino al 1979, è stato un ospedale psichiatrico cercavano immagini per la loro tesi di laurea. «La sorpresa è arrivata quando abbiamo messo le mani sulla parte di archivio non catalogata», racconta La Boria. «Nei fascicoli del pazienti, insieme a cartelle cliniche e foto, c’erano lettere, disegni, perfino componimenti musicali. Erano indirizzate ai loro familiari nella maggior parte dei casi. Oppure, più raramente, ai responsabili della struttura. Non sono mai uscite da qui, le hanno archiviate come oggetti clinici».

Queste parole non vi facciano troppa impressione, son cose che tutti le si capisce. Scrivere a casa, non ricevere mai risposta, scrivere ancora, lettere disperate. Mamma, ho bisogno di duecento lire necessarie alla mia cura. Silenzio.

Elisa La Boria e Luka Bagnoli sono il collettivo Zeroscena
Elisa La Boria e Luka Bagnoli sono il collettivo Zeroscena

Elisa e Luka, che insieme formano il collettivo Zeroscena, a quel punto sono davanti a un bivio: insistere nella ricerca, non sapendo bene dove avrebbe portato, o desistere. Perché di immagini non ce ne sono tante. Ma quelle lettere - inaspettatamente ben scritte, calligrafia d’altri tempi, spazi ordinati e puliti - sono tante e belle e potentissime. Nasce, e poi cresce, l’idea di insistere senza sapere bene cosa farne. L’idea di trasformare quella ricerca in una mostra arriverà nel tempo, quasi tre anni passati a San Servolo, con la regia del loro professore, Carmelo Marabello, docente allo Iuav e Dean della Venice International University, che anche lui - confessa - procedeva a tentoni. Oggi quel lavoro è una mostra, si chiama “Riscritti e rimossi”, è promossa da San Servolo srl (società in house della Città Metropolitana di Venezia) e VIU – Venice International University. È aperta fino al 30 marzo e, in mezzo alle voci di quasi duecento pazienti - selezionate nel periodo 1900-1920, perché un paio di paletti bisognava metterli - ci parla della memoria, della salute mentale, del confine sottilissimo fra salute e malattia. Ci raccontano storie di vite isolate, smarrite, forse rinnegate. Di paure, ossessioni, forse errori - qualcuno era lì dentro per manie intellettuali - metodi di cura. Di sogni, riflessioni. Perché quando si scrive o si dice voglio la libertà gli altri ridendo dicon sei pazzo. Ma anche di proteste, per le condizioni della struttura, per le cure, per il cibo. E ci sono anche scritti politici.

Zeroscena ha diviso le lettere in sei capitoli, un verbo per ciascuno: nascere, morire, protestare, sognare, ricordare, scrivere. Un colore per ciascuno. Luka ed Elisa hanno selezionato venticinque lettere, anzi dittici: una frase, la foto - se c’è - del paziente, e la lettera, con una o due passaggi in evidenza - un lavoro grafico di straordinario impatto. Ma di tutti e duecento i pazienti hanno preso le lettere, ne hanno scelto i brani più significativi, hanno costruito nuovi testi che condensano e amplificano il senso di tante parole - ecco perché le voci si sentono così forti. Io spiro a rivederti.

 

«Colpisce la totale assenza di diritti di queste persone», dice Marabello, scoprendo le foto parametriche rinvenute nelle cartelle dei pazienti. Certo, per chi visita il museo del Manicomio, che è sempre lì a San Servolo, non è una violenza che sorprende. «Molti di loro erano censiti come non istruiti, quindi non in grado di scrivere e leggere. Invece si procuravano una penna, un foglio, a volte una busta da lettere aperta, e scrivevano». Ma nessuno leggeva e questo pensiero - si può dire - da solo può bastare ad alimentare un’ossessione, a far nascere una malattia, per chi è confinato in un’isola, gli affetti lontani, nessun contatto mai.

E ora? La mostra si sposterà, l’archivio di San Servolo è chiuso, ma lì dentro ci sono altre voci e ce ne sono anche a San Clemente che era stato manicomio femminile. Nel giorno dell’apertura della mostra, un talk intitolato “Liberare l’archivio” ha aperto una riflessione. Ci sono altri fantasmi da far evadere? Chi lo farà e quando? Zeroscena ha aperto una porta. Le parole sono sempre pallide. Ma non finisce qui. Gli scritti restano. —

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