I mulini veneti testimoni dell’incontro nella storia tra uomo e acqua
Una nuova ricerca racconta presenza, vicende e diffusione delle macine sul territorio veneto. Macchine ecologiche che favorivano la coesione sociale. Lo studio è firmato dallo storico Mauro Scroccaro e dal fotografo Giorgio Bombieri
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Nel passato i mulini sono stati – a tutte le latitudini - una delle le invenzioni che più hanno inciso sulla vita quotidiana dell’uomo. Adesso invece sono diventati - quelli superstiti - delle straordinarie macchine del tempo, in grado di trasportarci indietro nei secoli, quando l’energia per far girare le ruote era fornita dai corsi d’acqua (più di rado dal vento) e attorno a quegli opifici si strutturava il paesaggio e si coagulavano contrade, relazioni umane, scambi economici e di idee.
Dall’antico Egitto
La diffusione dei mulini è documentata nell’antico Egitto e nella Mesopotamia, nella Cina e nei paesi arabi, nella Grecia e a Roma. Nel Veneto la loro presenza è attestata da un documento del 710 che ne registra uno sul Sile, a Casier, ma è verosimile che l’utilizzo di macine azionate dalle ruote ad acqua lungo i fiumi di pianura e i ruscelli di collina risalisse ai secoli precedenti, favorita tra l’altro dalla diffusione dei monasteri benedettini, che ne prevedevano l’impianto espressamente nella loro regola istitutiva.
La loro espansione divenne però massiccia a partire dal XIII secolo, in seguito ai progressi dell’agricoltura con l’evoluzione dell’aratro e l’estensione delle aree bonificate, il conseguente aumento della produzione dei cereali (e quindi della necessità della macinatura) e in concomitanza con l’estensione in terraferma del dominio veneziano.
Il declino
A pochi decenni dal loro declino – a partire da metà ‘800 in seguito all’introduzione del vapore e successivamente dell’elettricità – un censimento della Serenissima calcolava (per difetto) la presenza di un mulino ad acqua ogni 350 abitanti, conteggiando non solo gli impianti per la macinatura dei cereali, ma anche le pile per il riso, le segherie, le fucine e i magli battiferro e vari altri opifici industriali mossi dalla forza idraulica di cui rimangono nel territorio veneto rare tracce.
La ricerca
Ma proprio alla ricerca di queste tracce si sono messi da qualche anno lo storico Mauro Scroccaro e il fotografo Giorgio Bombieri, che ora hanno dato alle stampe il libro 6 fiumi per 70 mulini, edito dalla Cooperativa sociale La città del sole (pp. 194, € 20), dal sottotitolo “Usi e gestione dei fiumi di risorgiva nella storia delle province di Padova, Treviso, Venezia”.
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I sei fiumi sono il Sile, lo Zero, il Marzenego, il Dese, il Muson e il Tergola, corsi d’acqua il cui flusso consistente e costante originato dalle risorgive consentiva alle ruote dei mulini di pescare direttamente nell’alveo oppure in una sua derivazione, e di lavorare tutto l’anno indipendentemente dalle precipitazioni.
E i 70 mulini – 75 per la precisione, perché ci sono anche impianti esterni all’area in questione come quello famosissimo della Croda a Refrontolo, mosso dall’acqua che cade sulla ruota dall’alto - sono quelli censiti dagli autori lungo le loro rive, descritti, catalogati in visitabili e no, e fotografati.
I mulini riconoscibili
Ben pochi, per la verità, sono ancor oggi quelli immediatamente riconoscibili per la presenza di una ruota: spiccano fra gli altri quelli sul Sile, nell’Oasi di Cervara e a Quinto (dipinti da Guglielmo Ciardi, a cui è dedicato un percorso ad hoc), il Mulino Zorzi sul Marzenego a Noale, il Maglio di Pagnano, sul Muson.
Ma quasi tutti conservano immutato il fascino derivato dall’essere testimonianza dell’incontro fra l’uomo e l’acqua, dell’intreccio fra la natura e l’attività produttiva, che – almeno nei secoli scorsi – interveniva sull’ambiente modificandolo senza stravolgerlo: ecco allora i salti d’acqua creati per aumentarne la potenza, ecco le derivazioni, le chiuse per regolarne l’afflusso, i ponticelli, e i complessi meccanismi che trasformavano il moto rotatorio orizzontale delle ruote in quello verticale delle macine.
Mille storie
E dietro quella sapiente sistemazione del territorio, quelle costruzioni, quegli ingranaggi e quegli antichi oggetti si riaffaccia la vita che ci gravitava attorno, con le chiacchiere che si intrecciavano durante la macinatura, lo scambio di informazioni e di idee che facevano del mulino il luogo per eccellenza della socialità; era il “regno” del mugnaio, artigiano dalle mille competenze (idraulica, meccanica, commerciale), spesso invidiato per il suo status e più spesso ancora odiato dai compaesani, perché si sa, “a cambiar muner se cambia ladro”, e non a caso nel Giudizio Universale della cappella degli Scrovegni a Padova Giotto ne raffigurò uno curvo sotto il peso del suo sacco diretto... all’inferno.
I cognomi
E ad onta dei detrattori e del tempo che ha cercato di cancellarne il ricordo, a far memoria di quella antica arte che assicurò all’umanità i mezzi per sfamarsi, crescere e prosperare, restano i cognomi da essa derivati (Munari, Munaretto, Muner), molta toponomastica e parecchi sentieri dedicati, senza contare i locali che spesso hanno preso il posto dei vecchi mulini, decidendo di mantenerne il nome, magari gli ingranaggi interni o una macina in mezzo al giardino, oggi più che mai fattori di attrazione. —
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