Paul Newman, il secolo di un mito
Il celebre attore conosciuto per gli occhi di ghiaccio era nato il 26 gennaio 1925. Una carriera, dal teatro al cinema: «Il mio ruolo più difficile? Recitare me stesso»
«Il mio ruolo più difficile? Recitare Paul Newman». Un giornalista, durante un’intervista, si guadagnò l’aforisma bell’é pronto da un attore che rappresentò il suo tempo come nessun altro. Newman riuscì ad assaporare più di una vita nella stessa Vita. Non si considerava un granché, tutt’altro. Lui diceva sempre che la sua personalità era così scialba da essere costretto a rubare quella degli altri. Pareva davvero non appartenere a Hollywood, dalla quale peraltro Paul si allontanò per l’incapacità di relazionarsi con le star. Preferì il Connecticut, una specie di periferia sonnolenta, un rifugio senza smoking, con poche pretese e, soprattutto, accanto a sua moglie Joanne e ai suoi figli.
Se n’è andato un secolo da quando il neonato Paul aprì gli occhi al mondo sul grembo di mamma Theresa e guardato a vista da padre Arthur: era il 26 gennaio 1925. La famiglia Newman aveva messo su casa a Shaker Heights, un paesello che assomigliava a Camelot, costruito per ricordare un villaggio del New England a poche miglia da Cleveland, nell’Ohio.
Il ragazzo avrebbe dovuto rilevare il negozio di articoli sportivi del babbo, ma altri programmi si frapposero fra lui e un bancone. Come la guerra, per dirne una. Paul raccontava malvolentieri di quell’episodio a bordo di un bombardiere quand’era mitragliere: «Vidi il fungo su Hiroshima», raccontava, nonostante il soldato nascesse marconista in azione sul Pacifico.
Il dopoguerra gli apparecchiò il futuro: prima alla Yale University e, quindi, all’Actors Studio di New York, un’autentica fucina di artisti destinati all’eternità. Marlon Brando, per esempio. E Paul Leonard Newman, per esempio. Il debutto ne “Il calice d’argento”, però, gli fruttò una recensione non proprio brillante. Anzi, il critico paragonò la sua emotività cinematografica a quella di “un autista di autobus”.
Intervallo: la fotogallery
Non sempre i recensori ci azzeccano: a fine carriera il bottino dell’attore bello come il sole fu di tre Oscar (uno alla carriera e un altro umanitario dedicato a Jean Hersholt) e di sette Golden Globes. Tiè.
C’è una commedia da Pulitzer di Thornton Wilder che Paul interpretò due volte, nel 1955 e nel 2003: “Piccola città”. Nella prima edizione del Novecento il suo personaggio era il muscoloso protagonista George Gibbs, mentre in quell’altra del terzo millennio e in scena a Broadway, rappresentava il duro, snello e trasandato regista. Fra questi due poli attoriali ci sta tutta la carriera di Newman.
Paul assomigliava sempre al personaggio dentro al quale si nascondeva. In realtà era ogni personaggio. Lo si può a ragione considerare un uomo privato a cui la professione aveva regalato una faccia pubblica. Newman ha tratteggiato le molte tendenze del tipico maschio americano: coraggioso, attaccabrighe, determinato, vulnerabile, compassionevole e onesto.
I titoli del suo cinema stanno tutti nella storia. Infatti l’attore mai si arrese a richieste di pellicole cosiddette di cassetta. Il 1956 è l’anno di “Lassù qualcuno mi ama”. Nel 1958 Newman firmò tre contratti per il drammatico sentimentale “La lunga estate calda”, per il western “La furia selvaggia” e per il pluridecorato “La gatta sul tetto che scotta” con una indimenticata Elizabeth Taylor. Lui aveva una ferrea disciplina interiore superiore agli attori di “metodo” della sua generazione, da Tony Curtis a Robert Wagner.
Paul contribuirà a rendere eterni “Lo spaccone” (1961), “Nick mano fredda”, 1967, “Butch Cassidy”, “La stangata” con Robert Redford, 1973, e “Il colore dei soldi”, che gli frutterà l’Oscar nel 1986, ma il vincitore non salì sul palco per ritirarlo. Newman, nel film, è sempre Eddie lo spaccone, soltanto un po’ più maturo.
Appena le finanze glielo consentirono “occhi di ghiaccio” cercò di onorare un’altra passione: le corse automobilistiche. Vinse otto titoli nazionali e 107 gare. A settant’anni salì sul podio più alto della 24 ore di Daytona, in cima come il suo mitologico orologio di un brand ginevrino diventato un’icona del lusso mondiale. Il magnifico segnatempo con quadrante tropicale fu venduto anni fa ad un’asta a 17 milioni di dollari. Sul fondello è incisa la dedica della sua amata moglie: “Drive carefully me” (Guida con cautela).
Ebbene sì, non sono ancora terminate le sue molteplici vite: ne mancano ancora due. Il marito fedele della “collega” Joanne Woodward, cinquant’anni fianco a fianco, dal ’58 fino alla sua morte nel 2008, conosciuta sul set di “La lunga estate calda” e tre figli (più altri tre avuti dalla prima moglie Jackie Witte) è un raro caso di devozione incondizionata. Un amore e una complicità esemplari, persino quando Paul saliva sui bolidi lei lo sosteneva ugualmente sebbene fosse terrorizzata dal non rivederlo più.
Restano da scoprire il Paul Newman filantropo, oltre 250 milioni di dollari donati ai bisognosi senza esibizioni plateali, e il Paul Newman imprenditore, un convinto assertore di cibo con ingredienti freschi e senza conservanti. L’ennesimo trionfo.
Non si svelano ombre in un’esistenza quasi perfetta. Mai un cedimento, mai uno scandalo, mai un passo falso.
Quando morì, il 26 settembre del 2008, il mondo intero si rese conto di tutti i Paul Newman che aveva conosciuto: l’attore, il pilota, il benefattore, l’imprenditore, il buon marito e il buon padre di famiglia.
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