Buttafuoco: «Riaprire cinema, librerie e teatri nei piccoli borghi»
Un anno dopo il suo insediamento, il presidente della Biennale lancia un appello a Giorgia Meloni, Alessandro Giuli e alle istituzioni culturali

A un anno dall’insediamento sorride, non vuole tracciare bilanci, riassume il presente con una citazione da Eduardo De Filippo: «Chi è cchiù felice’e me? ». Poi Pietrangelo Buttafuoco, dal suo studio alla Biennale di Venezia, rivolge, per l’occasione, un appello al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ad Alessandro Giuli, Ministro per la Cultura. «Mi concedo un lusso. Mi permetto di suggerire una riflessione – spiega». «Dobbiamo affrontare il fatto che, nell’epoca della transizione digitale compiuta, niente resta, niente permane».

Si riferisce all’immaginario collettivo del nostro tempo?
«Anche le icone o gli episodi cult che avrebbero potuto segnare un’epoca, nel giro di pochissimo trascolorano e scompaiono, oggi. Nessuno, già, ricorda più la sequenza dell’orecchio ferito di Donald Trump, nel frattempo diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Eppure, in un altro momento storico, quell’episodio avrebbe continuato a farci compagnia a lungo. E non c’è dubbio che quell’immagine sia un racconto fondamentale dei nostri giorni, che merita analisi e riflessione».
Cosa chiede alla politica?
«L’Italia, in larga parte fatta di provincia, di piccoli borghi, ha bisogno di un’azione che permetta a questi territori di non sentirsi periferia, di non sentirsi abbandonata all’uso e consumo esclusivo del digitale. Nei centri al di sotto dei diecimila abitanti si deve immaginare un impegno: garantire i presidi dello spirito critico. Che poi sono quelli che determinano molta parte dell’economia e del commercio. Bisogna salvare le sale cinematografiche, i teatri, le librerie. Garantire queste tre realtà. Così come si garantisce la caserma dei carabinieri o la farmacia. Allo stesso modo bisogna concentrarsi e stabilire il principio che nella larga, meravigliosa provincia italiana, non si possa fare a meno di queste tre entità che ho nominato».
Diranno che è un progetto velleitario.
«È concreto. Favorire l’incontro aiuta il formarsi dell’agorà. E dall’agorà nasce la polis che oggi abbiamo perduto. Da queste realtà – il cinema, il teatro, il libro – nasce, sempre, un indotto economico importante. Soprattutto, se sei consapevole, se hai un’idea di bellezza e di profondità, da artigiano, per esempio, ti impegnerai a produrre un manufatto più bello e più importante. Investire in cultura instaura un circolo vizioso che va incontro ad altre discipline. E le istituzioni –largamente intese – non possono non prenderne atto. Poi bisogna aprirsi ai privati, guardare altrove. Ma certo ci vuole una regia che la politica deve darsi. Cominciamo, ripeto, dai piccoli borghi, quelli con meno di 10. 000 abitanti. Il loro entusiasmo sarà assolutamente contagioso».
Come pensare, per porre un’obiezione, a costruire ancora sale cinematografiche, oggi, nel tempo in cui, agli Oscar, vanno pellicole prodotte dalle piattaforme digitali?
«Il godimento unico che può dare il grande schermo, mai, mai potrà essere sconfitto dalla visione attraverso i devices. C’è un concetto da affrontare e da introdurre: quello di lusso. Che non ha a che fare immediatamente col danaro. Il massimo coinvolgimento, soprattutto da un punto di vista emozionale, per lo spettatore si verifica in sala. Ne abbiamo avuto una prova provata alla scorsa Mostra del Cinema che ha visto il ritorno in massa delle persone che hanno scelto di sedersi e affrontare molte ore di proiezione. Le due esperienze, il cinema e i devices, non sono paragonabili».
Veniamo al suo lavoro in Biennale. La rivista, soprattutto nel primo numero, ma poi anche le più recenti iniziative sembrano porre l’accento sul desiderio di relazione tra identità in un mondo che sembra volgersi a uno scontro finale. Penso all’articolo, bello, che avete pubblicato sul Sabir, la lingua franca dei porti.
«Noi ci di troviamo di fronte a uno scacchiere totalmente inaspettato. Che è plurale, non più monolitico. Siamo allo scontro tra le due realtà immaginate dalla scienza della politica, tra l’imperium e il dominium. Allora parlare del Sabir è importante perché è fantastico restituire all’opinione pubblica, ai lettori, qualcosa che c’è ma di cui non ci siamo accorti».
Uno strumento.
«Sabir è una lingua bellissima. Biennale si è impegnata e ha verificato tutto questo, abbiamo voluto dire: ”Noi, per un lungo e fruttuoso periodo, riuscivamo a capirci se da Marsiglia dovevamo arrivare ad Algeri, se da Creta puntavamo le Baleari. E ancora da Venezia al Marocco. È bellissimo, in questo frangente storico, verificare queste possibilità. Come quando siamo andati ad Hangzhou, in Cina, quando abbiamo ricominciato il viaggio di Marco Polo. Restituendoci alle sue tappe con gli occhiali dell’arte contemporanea. Quell’idea di mondo, la sua, era già fatta di viaggio, cinema, racconto; si è frantumata per poi vivere ancora, oggi, con dei codici nuovi».
La sento parlare molto di Mediterraneo, dove secondo Matvejevic, è stata concepita l’Europa.
«E però l’Europa non ha idea del Mediterraneo. Non lo ha capito. È un dato di fatto. Va considerato anche che c’è un istinto impossibile da trattenere nei popoli e negli orizzonti, nei segni remoti, nella parola arcaica. Abbiamo nominato Koyo Kouoh curatrice della prossima Biennale d’arte, con un desiderio preciso: abbiamo voluto procedere, nella visione, per geografia e non per storia. Gli schemi di difficoltà ermeneutica, interpretativa, oggi, sono legati al fatto che tutti ci sforziamo di dare risposte al nostro presente con mentalità novecentesca. E questo non ha senso alcuno. Il futuro se lo possono mettere in carico Koyo Kouoh o Caterina Barbieri non tanto per la loro pur straordinaria formazione ma soprattutto per le loro idee che si spingono sull’altrove. Per il domani. Il domani non è un’utopia. È l’orizzonte inesplorato, la geografia, appunto, che ancora non c’è ma che va immaginata».
Proseguendo l’analisi su questo primo anno di Biennale: ha voluto dare grande spazio all’archivio. Seguendo un’idea cavazzoniana: «Nelle biblioteche, nelle collezioni d’arte, nelle architetture delle città c’è l’aldilà in cui forse si sopravvive».
L’orizzonte è inevitabilmente metafisico. È soltanto metafisico. Il transito è sempre un tramite. La stessa ragione sociale di questa istituzione, della Biennale, è fatta di discipline ben definite che sono sempre volte al superamento dell’orizzonte attuale per arrivare all’ulteriore. È ovvio. Approfitto della domanda-ancora non l’ho materialmente chiamato – per invitare pubblicamente da noi il maestro Ermanno Cavazzoni a tenere una lectio magistralis».
Lei ha pure sostenuto che nel nostro mondo non esistono più i concetti di destra e sinistra. Ma, se è così, perché, nel nostro paese, non riusciamo ad avere una memoria storica condivisa?
Ci vuole una forza che sia dettata da un’autenticità, da una sincerità. Gli Usa, molti anni fa, si sono potuti permettere il lusso di avere “Via col Vento”. Un film che scavava nella carne aperta, nella ferita della guerra di secessione, celebrando i vinti. “Le Troiane” di Euripide, se ci pensa, sono una voce straordinaria di un greco che rende onore agli sconfitti e più di questo non si può. Oggi questo è pure inimmaginabile. Manca onestà intellettuale.
Ma, come dicevamo prima, sono situazioni determinate da uno sguardo novecentesco. Il nemico diventa un imputato». —
Il profilo
Scrittore, giornalista, conduttore televisivo, Buttafuoco è, da sempre, tra gli intellettuali del Paese, che più fanno discutere. “Le uova del drago”, bestseller, finalista al Premio Campiello, è il titolo che lo ha portato al successo. Fortunato in libreria anche il suo secondo romanzo “L’ultima del Diavolo”. Buttafuoco è direttore del sito Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine. Notevole pure la sua produzione nel contesto della saggistica. Tra i titoli più popolari: “Buttanissima Sicilia”, poi “Strebuttanissima Sicilia”, “Il feroce Saracino”, “Armatevi e morite” , “Fuochi”, “Sotto il suo passo nascono i fiori”.
Riproduzione riservata © il Nord Est