Porzûs, compendio del Novecento

Lo storico Piffer presenta a Trieste «Sangue sulla Resistenza». E dice: «La federazione udinese del Pci era perfettamente consapevole della situazione e partecipò alle fasi di ideazione dell’attacco»

Giovanni Tomasin
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici in Slovenia nel ’45
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici in Slovenia nel ’45

 

«Un compendio del Novecento». Lo storico dell’università di Udine Tommaso Piffer definisce così la storia dell’eccidio di Porzûs, che nel suo libro “Sangue sulla Resistenza” rilegge alla luce di fonti sia italiane che slovene i fatti che portarono alla strage operata dai partigiani comunisti della Garibaldi Natisone ai danni dei partigiani cattolici e socialisti della brigata Osoppo, nel febbraio del 1945. Il libro è stato presentato a Trieste al Circolo della stampa di Corso Italia.

A discuterne con l’autore, lo storico del confine orientale Raoul Pupo (Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea) e la consigliera scientifica dell’Istituto per la storia contemporanea di Lubiana Nevenka Troha. Modera lo storico Patrick Karlsen, di Units e Irsrec Fvg.

Da decenni si dibatte sulla catena di comando e quindi sul mandante finale della strage. Quali sono le conclusioni del suo libro?

«Sugli esecutori non ci sono mai stati dubbi, mentre sui mandanti la discussione è rimasta aperta a lungo. La documentazione che viene dagli archivi sloveni permette oggi di ricondurre l’ordine al comando della divisione Garibaldi Natisone che, a cavallo tra il novembre e il dicembre del ’44, non solo acconsente alla richiesta slovena di cacciare gli osovani dalla zona rivendicata dalla Jugoslavia socialista, ma soprattutto decide un’azione di forza che prevede esplicitamente l’eliminazione fisica degli osovani che non intendono passare nella fila del IX Corpus».

Quale ruolo giocarono le strutture del Pci in Friuli?

«La federazione udinese del Pci era perfettamente consapevole della situazione e partecipò alle fasi di ideazione dell’attacco. Gli ispettori del Pci a livello nazionale per questo territorio, soprattutto Pietro Secchia e Aldo Lampredi, diedero alla Natisone istruzioni di passare alle dipendenze del IX Corpus e di favorire l’annessione della zona contesa alla Jugoslavia socialista. Così facendo di fatto determinarono la spaccatura dell’antifascismo italiano».

Ne erano pienamente coscienti?

«In realtà diedero istruzioni contraddittorie. Ordinano di favorire l’annessione e al contempo danno istruzione alla Natisone di mantenere l’unità dell’antifascismo. Ma i due obiettivi erano tra di loro incompatibili».

Quali furono le conseguenze sul confine?

«Di fatto non ci furono perché, sebbene l’attacco alla Osoppo sia stato funzionale a liberare la zona dalle forze contrarie all’annessione, saranno poi gli alleati occidentali a costringere Tito a ritirarsi da Trieste e dalla Benecia».

E quali invece le conseguenze di lungo periodo per le forze politiche impegnate nella lotta antifascista?

«Porzus è diventato uno degli episodi più controversi della storia della Resistenza perché metteva sotto i riflettori la politica del Partito comunista italiano sul confine, e quindi l’italianità dello stesso partito. A rendere possibile l’eccidio fu un’ambiguità di fondo nella linea politica del Pci. Da una parte sostiene l’unità dell’antifascismo, dall’altra non rinnega la sua identità di partito marxista-leninista. In tutta Italia Togliatti riesce a tenere insieme i due aspetti, l’ambiguità regge e permette al Pci di diventare una delle maggiori forze della Resistenza e poi un partito di due milioni di militanti. Sul confine orientale il IX Corpus costringe invece i comunisti italiani a fare una scelta, e qui c’è la chiave dell’eccidio: la scelta di favorire la solidarietà ideologica con gli sloveni segna la fine degli osovani. La storia di Porzûs è sempre stata presentata come oscura e complicata laddove è invece molto semplice. È la storia dell’eliminazione di un avversario percepito come un ostacolo al raggiungimento di un obiettivo politico. Una storia brutale, figlia delle passioni politiche del ’900».

Spesso si cerca di leggere i fatti del confine orientale sotto un’unica lente, ad esempio quella nazionale. Qui invece vediamo in azione altre logiche, in questo caso staliniane.

«È una storia, così come tante altre tragiche vicende del confine orientale, dove si sovrappongono tante linee di frattura. C’è la frattura nazionale, c’è la frattura ideologica tra comunismo e anticomunismo, e poi quella fra fascismo e antifascismo. L’unicità di Porzûs è quella essere all’incrocio di tutte queste linee che hanno insanguinato l’Europa nel secolo scorso. Racchiude assieme anche Seconda guerra mondiale e Guerra fredda. Una sorta di crocevia di tutto il Novecento».

Che approccio ha adottato nel lavoro sulle fonti?

«Siccome è una storia di frontiera, ho avuto a cuore d’immedesimarmi in tutte le parti in gioco, sia la componente italiana che quella slovena. Per questo ho lavorato molto sulle fonti slovene, perché bisogna tenere conto di tutti i lati del confine. È considerare il punto di vista sia delle vittime sia dei carnefici, per capire come una persona possa arrivare a compiere atti tanto terribili».

Come guardare oggi a quei fatti?

«A ottant’anni di distanza forse i fatti sono maturi per essere consegnati alla storia. Sono morti i suoi protagonisti, sono venuti meno i confini e non ci sono più partiti eredi di quella storia. Ci sono tutte le condizioni per guardare a questa vicenda con serenità. Il mio auspicio è che il mio sia un lavoro che non approfondisce le fratture, ma dia un contributo a superarle». 

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