Racconti intorno alla moda, firmati Maria Luisa Frisa

Quindici storie racchiuse in una antologia autobiografica, da Bret Easton Ellis a Michela Murgia: «Non volevo che questa raccolta fosse una banale sequenza di personaggi vestiti in un certo modo»

Costanza Valdina
Phoebe Dynevor
Phoebe Dynevor

Quindici storie, quindici modi d’intendere e raccontare la moda. Li ha raccolti Maria Luisa Frisa in un’antologia autobiografica. Pier Vittorio Tondelli, Joyce Carol Oates, Jhumpa Lahiri, Michela Murgia, Bret Easton Ellis, Irene Brin sono solo alcune delle voci di autori e teorici che seleziona per tratteggiare «il precipitato della mia storia a contatto con quella della moda». In un costante processo di scoperta e riscoperta, intreccia narrazioni eterogenee in una tela vibrante e multiforme per raccontare gli abiti come «intercapedine tra noi e il mondo».

La scrittrice Michela Murgia
La scrittrice Michela Murgia

Teorica della moda e curatrice, Frisa è professoressa ordinaria all’ Iuav di Venezia dove ha fondato il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali. “I racconti della moda” è la prima raccolta che cura per i Supercoralli di Einaudi. «Non è un libro rivolto ad esperti del settore» sottolinea «ma una lettura dedicata a tutti coloro che, senza essere necessariamente appassionati, sono curiosi di scoprire un sistema complesso ed intraprendere personalissimi percorsi».

È la sua prima esperienza da curatrice di una raccolta antologica: ha scoperto un nuovo modo di raccontare la moda?

«Non volevo che questa raccolta fosse una banale sequenza di personaggi vestiti in un certo modo, ma piuttosto che mi aiutasse a raccontare il mio rapporto con la moda. Per collezionare i racconti ho ritrovato autori del passato e ne ho conosciuti di nuovi. Tondelli, ad esempio, mi ha permesso di collegare il ritratto di Patti Smith realizzato da Mapplethorpe con “L’uomo senza cravatta” di Gianni Versace. Tra le pagine, la mia voce è complementare alla narrazione: è un filo diretto con il lettore».

Nell’introduzione scrive che “è difficile segnare il confine tra abito e corpo”: siamo noi che definiamo i vestiti e sono loro a definirci.

«S’innesca un doppio movimento. Da una parte la moda, nel senso più alto del termine, non può essere comoda perché è costruzione e costrizione, dall’altra i nostri corpi definiscono gli abiti che indossano. Anni fa comprai lo Stockman di Margiela perché mi ricordava la silhouette del manichino sartoriale. Scelsi il modello più costrittivo e lo indossai sempre con piacere: in quell’armatura mi sentivo assolutamente a mio agio. Il corpo si accompagna all’ondivaga percezione che abbiamo di noi stessi».

Maria Luisa Frisa in un ritratto scattato da Antonino Cafiero
Maria Luisa Frisa in un ritratto scattato da Antonino Cafiero

La raccolta è “una sorta di autoritratto”: qual è il racconto che descrive il suo presente?

«Da giovane volevo essere eccentrica. Mi vestivo per sfuggire al mimetismo del gruppo, convinta di guadagnare un mio spazio di libertà. Ricordo quando mi feci comprare una pelliccia di montone bianco dell’Afghanistan. Aveva un odore insopportabile e tutti lo avevano notato. Ora la mia prospettiva è cambiata e mi rispecchio in “Il fascino della divisa” di Jhumpa Lahiri. Mi vesto sempre allo stesso modo: maglia nera girocollo e gonna. In compenso lavoro molto sugli accessori. Con il tempo si raggiunge una sintesi».

Nella raccolta c’è “un dono”: un racconto disperso e ritrovato di Michela Murgia. Nei ringraziamenti le rivolge un pensiero e scrive che con lei “si è ritrovata a parlare di moda, con grande stupore, come non era mai successo” e che l’ha compresa “come nessuno mai”.

«Ho incontrato Michela in una bellissima giornata di sole. Lei aveva capito tutto: l’importanza della moda e di viverla liberamente. Anni dopo, tra le pagine di “Ricordatemi come vi pare”, ho ritrovato frammenti di quella chiacchierata. Mi ha compresa fin dall’inizio e mi ha sempre incoraggiata a non avere paura d’essere me stessa. Grazie a lei sono riuscita ad avere una consapevolezza più profonda della materia di cui mi sono sempre occupata».

Questo è il suo ultimo anno d’insegnamento allo Iuav. Come si pone la raccolta rispetto a questo cambiamento: è un capitolo concluso o un nuovo inizio?

«Tutto ciò che ho fatto da quando ho fondato il corso di laurea di Design della moda lo devo ai miei studenti. Le loro scelte creative sono una fonte d’ispirazione e una finestra sul cambiamento. Non mi sono mai stancata di chiedere, ad ogni esame, l’aspetto che più li avesse incuriositi del mio corso: ogni risposta è stata un viaggio. Osservandoli, ho scoperto un nuovo modo di raccontare il proprio tempo. Anche in questo, la moda è un movimento doppio».

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