Chi non ha onore non ha nemmeno vergogna. In viaggio con Cowboy
Dalla Svizzera all’Italia, una storia di lavoro, emigrazione e arte negli anni Sessanta: il ritorno in treno per le feste
Gino guardò un’ultima volta la sua bici da corsa con la targa rossa LU-67: a Lucerna anche le bici avevano la targa, e questa sarebbe stata un’altra novità da raccontare a casa, in Italia, dove sarebbe arrivato prima delle feste di Natale. I suoi cugini erano partiti a fine novembre, come tutti i muratori, e lui era rimasto, perché era capitato quel lavoro a casa del padrone, l’impresario edile, che aveva uno chalet fuori città.
Una settimana da solo a far bricòle, piccoli lavori quasi tutti al coperto; stuccare, pitturare, riparare, verniciare: lo svizzero acquistava mobili vecchi, perfino col caról, il tarlo. Cose da pazzi. O da ricchi: oltre ai mobili tarlati comprava quadri in cui non c’erano persone, cose, paesaggi ma solo segni e pennellate geometriche di colore rosso, giallo, blu. In alcuni c’erano spruzzi, colate, gocce. Lo svizzero stava davanti ai suoi quadri a sorseggiare birra scura fumando la pipa, e però s’innervosiva se la vernice sui mobili decrepiti non era stesa a dovere.
Comunque, era stato un buon lavoro: tante ore, ma aveva guadagnato bei soldi e sistemata la bici in deposito era pronto per partire: Italia, casa, morosa. Con Marietta si scrivevano da due anni, ed era bello ricevere le sue cartoline durante la stagione di lavoro. Anche lei era della valle e si conoscevano da quando erano piccoli e non è che avessero tante cose di cui scriversi; però il pensiero, sapere che esistevano l’uno per l’altra, questo sì, era importante. Una roba come il sole, non è che stai ogni giorno a ragionare sul sole, l’importante è che ci sia.
L’unica cosa brutta del ritorno a casa era il viaggio in treno, tutti ammassati nello scompartimento, e stavolta, con l’avvicinarsi delle feste, sarebbe stato un macello. La stazione di Lucerna era umida, buia e affollata; Gino sapeva già il binario giusto, si avvicinò e si mise in coda per salire. Fu allora che notò un po’ di trambusto davanti a sé, si sporse, osservò meglio: Cowboy era lì che teneva banco e tutti ridevano.
Era un paesano della valle, trent’anni buoni, capelli neri e ricci, barba nera, cappello sformato, giubbotto d’aviatore imbottito di pelliccia di pecora, fazzoletto al collo e un grosso zaino al posto della valigia. Anche lui muratore, ma estroso, un vero artista con la cazzuola, dicevano. A Lucerna era una piccola celebrità e Gino aveva sentito spesso raccontare di certe sue bravate: baruffe, partite alla mòra, sbronze, canti in piazza a squarciagola e polizia.
Gino entrò nella bolgia di cappotti, valigie, cappelli, sciarpe e... uno zaino, quello di Cowboy, che era davanti a lui con le mani in tasca. Ai piedi indossava gli scarponi da muratore ingrassati alla meglio: si guardava intorno, tutto spavaldo e quando vide Gino sgranò gli occhi e disse: Ciao bòcia! Andarono avanti a singhiozzo ed entrarono nello stesso scompartimento affollato. Guadagnarono a fatica il loro posto e si sedettero. Appena lasciata la stazione Cowboy sussurrò a Gino: «Òcio, bòcia, che facciamo spazio».
Gino non capì bene ma non ebbe tempo di fare domande che il paesano si chinò in avanti e prese a slacciarsi gli scarponi: se li tolse entrambi e rimase con i calzettoni di lana rammendati sul pianale del treno, si calò il berretto sugli occhi e reclinò il capo come per dormire. Accadde subito qualcosa, una specie d’effervescenza fatta di smorfie, sguardi, movimenti, colpi di tosse, mormorii. Gemiti, anche in tedesco, che erano uguali a quelli in italiano.
Era puzza di piedi.
In pochi istanti il fetore appestò la cabina e spinse in corridoio la donna con la bambina e una dopo l’altra tutte le persone dello scompartimento. L’ultimo ad uscire fu un tedesco che mormorò schifato: cìngali, guardando con disprezzo Gino e Cowboy. Quella parola voleva dire zingari.
Cowboy rise – Non mi cambio i calzetti e non mi lavo i piedi da quindici giorni – disse alzando i piedi malefici che poggiò sul sedile di fronte.
Gino era come ipnotizzato, stordito, non sapeva che fare. E quelle calze giallastre, che nei talloni e nelle punte viravano al marrone, prendevano tutto lo spazio, l’aria, il respiro.
– Bòcia, apri un po’ il finestrino, va’ – disse Cowboy.
L’aria fredda delle montagne svizzere entrò nella cabina insieme allo sferragliare del treno, Gino si sedette e chiuse il bavero del giaccone e il paesano iniziò a raccontare di donne, grappa, musica, lavori, botte ai capi svizzeri e tanti schèi che guadagnava con i suoi lavori. Tirò fuori dallo zaino un paio di birre, allora Gino offrì pane nero e formaggio coi buchi che aveva in valigia. Lo scompartimento era tutto per loro, Cowboy era simpatico e prese ancora delle birre dallo zaino. Bevvero, fumarono, si appisolarono; Gino ascoltò tutte le vicende incredibili di Cowboy che finalmente, verso Milano, rimise gli scarponi. Arrivarono a Venezia e poi presero il treno per la valle. Quando lasciarono la pianura Cowboy confidò di certi pensieri brutti che aveva: quel bastardo del suo padrone non gli aveva dato contanti, i soldi sarebbero arrivati in Posta dopo le feste. Ma come faceva a presentarsi a casa con le tasche vuote dopo tanti mesi in Svizzera?
– Te me lo faresti un prestito? – chiese all’improvviso.
Gino pensò ai soldi che aveva con sé, al fatto che erano paesani, e che Cowboy, quando lui gli aveva parlato di Marietta, aveva detto che l’amore era la cosa più importante, così come la vera ricchezza sono i paesani e non i schéi. A quel punto del viaggio avevano bevuto abbastanza, riso ed erano amici. E Gino non sentiva più la puzza di piedi.
– Con l’anno nuovo ti rendo tutto – continuò Cowboy.
– Quanto ti serve? – chiese Gino mettendo mano al portafoglio.
– Tutto quello che puoi, a casa… hanno bisogno.
Gino contò i biglietti e glieli diede. Era quasi tutto il guadagno della settimana di lavoro nello chalet dello svizzero.
– Sei un amico – disse Cowboy – anzi, di più: te sei mio fratello di sangue.
Quando Gino arrivò a casa si fece festa, e venne Marietta con le guance arrossate dal freddo ed era bella più che mai; arrivarono anche i cugini. Sua madre preparò una gran padella di pastìn con la polenta fumante e lui raccontò della bici da corsa con la targa, dell’ultimo lavoro dallo svizzero e del viaggio pazzesco con Cowboy. Quando arrivò alla bravata dei calzini puzzolenti calò il silenzio in cucina e sua madre fece un’espressione schifata. Suo padre posò la forchetta e scosse la testa: – Lascia perdere quello, è uno dei nostri, ma non è come noi. E ricordati sempre: chi non ha onore non ha nemmeno vergogna.
Gino divenne pensieroso e qualcosa prese a bruciargli nell’animo. Vide un’immagine davanti a sé, era il vecchio ponte di Lucerna. Da una parte c’era lo svizzero, con la pipa e la sua passione per l’arte, dall’altra Cowboy, l’artista con la cazzuola. E per qualche misterioso motivo le banconote della sua paga erano passata dall’uno all’altro, come un volo di rondini. Vide anche se stesso in mezzo al ponte, un gran bel mona.
La scheda
Lo scrittore Antonio Giacomo Bortoluzzi (Alpago, Belluno, 1965), è stato finalista per due volte (2008 e 2010) al premio Italo Calvino: nel 2010 ha pubblicato “Cronache dalla valle”, nel 2013 “Vita e morte della montagna”, nel 2015 “Paesi alti”. Con Marsilio Editori ha pubblicato nel 2019 il romanzo “Come si fanno le cose” e nel 2023 “Il saldatore del Vajont”, con cui ha vinto il Premio Coop Alleanza 3.0 della Giuria dei lettori del Premio Latisana per il Nordest 2024; entrambi i romanzi sono ripubblicati nell’Universale Economica Feltrinelli. In questi mesi, incontra le scuole venete sui temi del disastro del Vajont, del lavoro, della montagna.
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