«SicutErat», viaggio nel lessico famigliare cattolico

Paolo Malaguti esce in libreria con la cronaca di un’educazione rurale e religiosa: «Il mistero in dialetto: storia di una fede piana». In un Veneto in cui erano tutt’uno ethos, fede, legame con la terra e le stagioni

Francesco JoriFrancesco Jori

Fatta in casa, come il pane di una volta: e come quello, genuina e piena di sapore. La religione ai vecchi tempi la si impastava e assaporava in famiglia prima ancora che in chiesa, assieme al legame con la terra e al senso della vita.

E anche se non è ancora cinquantenne, ha fatto a tempo a sperimentarlo di persona Paolo Malaguti, fine narratore del Veneto delle radici: che rivisita quella irripetibile esperienza maturata da ragazzo nel suo ultimo libro, SicutErat Il mistero in dialetto: storia di una fede piana (Libreria Editrice Vaticana, 140 pagine, € 14), frutto di una serie di articoli scritti per l’”Osservatore romano”.

Il suo è il resoconto fedele di un intenso cammino compiuto in prima persona, e inserito nel più tipico ambiente umano e sociale del Veneto di ieri: una famiglia di campagna, con il dialetto come madre-lingua, cattolica nel Dna incluso il tributo versato a Santa Madre Chiesa in termini di persone (due zii preti e due zie suore).

In quel contesto, la prima e più autentica scuola di religione non era la parrocchia ma la casa stessa: dove la nonna in particolare teneva cattedra quotidiana, usando non un testo scritto ma una sorta di catechismo di vita vissuta, dal quale usciva una religione singolare, «fatta di stupore, apparizioni, diavoli, ostie sanguinanti, misteri, pranzi in famiglia».

Ma nutrita comunque di una fede profonda che fungeva da bussola nei labirinti della vita quotidiana. Era, quello di cui parla Malaguti, un Veneto contadino nei valori e negli stili di vita prima ancora che nella condizione sociale: attaccato a quella madre terra «verso la quale nutrivamo una passione furibonda» come ricorda Andrea Zanzotto; mai stanco di coltivarla, nella consapevolezza che basta una tempesta per distruggere la fatica del raccolto; animato da una ferrea osservanza delle leggi della natura perché dettate da Colui che, con rispettosa confidenza, veniva chiamato non Padreterno ma «el Paròn grando».

In quel Veneto la religione si assorbiva col latte materno, ed era pane quotidiano della famiglia, con una devozione testimoniata da significativi detti popolari; del genere: «Davanti a un prete e a un capitèo, cavate sempre el capèo».

Dio, terra, famiglia: il triangolo dell’esistenza

E’ questa l’aria respirata dal Malaguti bambino, ragazzo, adolescente, anche attraverso esperienze insolite ma stimolanti come le preghiere che facevano parte del menu quotidiano: non solo non indigeste («sempre meglio che fare i compiti…»), ma anzi fonte di singolari esperienze nel contatto con formule strane, in cui di tanto in tanto appariva qualche termine sconosciuto, del quale l’autore propone sorridenti esempi: «orso dunque avvocata nostra», e «gemente seflente» del Salve Regina, o il «mio Dio mi pento e midollo» del Credo.

E qui viene inevitabile il richiamo all’affabulazione di Luigi Meneghello, con quel «latinorum» che sfocia nell’«amaluàmen» del Padre nostro recitato dal Nino di «Libera nos a malo». Una preghiera che centrava un problema: liberaci dal «luàme» dell’esistenza. I tanti tasselli del racconto di Malaguti forniscono un quadro fedele quanto coinvolgente del Veneto di un tempo in fondo non lontano: tra Messe del fanciullo, campi scuola, stimoli di oratorio, incontri con figure particolari (come il padre Leone, anziano e duro d’orecchi, utile approdo per chi andava a confessarsi); e con un messaggio di fondo semplice quanto pieno di sostanza: la vita di parrocchia, nell’Azione Cattolica, come un luogo fisico ma anche dello spirito dove stare assieme senza il tormento dell’ansia da prestazione; semplicemente e confortevolmente “il posto degli amici”. C’è soprattutto una lezione che esce dalle pagine del libro: la scoperta del valore della relazione con l’altro, la ricchezza dello stare vicino a chi te lo chiede, in un rapporto gratuito di dare ed avere.

La preziosa eredità

C’è un’eredità preziosa che Malaguti ha ricevuto da questi vissuti, sia come insegnante che come scrittore, e che tuttora custodisce con esemplare impegno: la pratica quotidiana del racconto. «La mia famiglia ci ha cresciuto in un mondo ricco di storie», sottolinea; e riconduce questa prassi all’esperienza religiosa, perché «la radice stessa del Cristianesimo è narrativa; Gesù non ha filosofato, ha parlato per parabole».

L’autore ancor oggi ne fa pratica quotidiana, con gli studenti come con i lettori, rivolgendo un appassionato invito: «Prendiamoci il bel rischio di raccontare delle storie a chi ci sta vicino. Anche perché in fondo «tutti siamo portatori sani di storie, tutti noi ne possediamo almeno una», e «un racconto stringi-stringi è un atto d’amore».

Lui l’ha fatto e continua a farlo nei tanti libri che ha scritto, centrati su personaggi tra loro diversi ma accomunati da una caratteristica di fondo: il rispetto di sé e dell’altro, «che impedisce loro di perdersi nell’odio o nell’assenza di senso». Una preghiera laica, in un presente che troppo spesso calpesta la dignità dell’uomo. 

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