Marco Polo e le trame dei segni, a Venezia

Apre a Ca’ Giustinian la mostra “Gulnur Mukazhanova. Memory of Hope”. Il presidente della Biennale, Buttafuoco: «Una tessitura di voci e suoni che guarda al domani»

Costanza Valdina
L’opera di Gulnur Mukazhanova allestita nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian (foto biennale/jacopo salvi)
L’opera di Gulnur Mukazhanova allestita nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian (foto biennale/jacopo salvi)

Migliaia di fiocchi di lana vergine e lana pettinata, candida seta Mulberry, sontuosi tessuti broccati del periodo sovietico, luccicanti paillettes, delicati velluti meticolosamente intrecciati e compressi sul legno dalla forza elettrostatica. L’installazione di Gulnur Mukazhanova è un trionfo di colori.

Come in un enorme piumaggio di pavone, ogni fibra naturale cattura riflessi di luce e vibra in sfumature cangianti. Turchese, fucsia, ocra, viola, rosso si propagano in un arcobaleno liquido nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, sede della Biennale.

Tra le sfumature, s’insinua anche la coda dorata di un serpente, un’entità positiva della cultura preislamica, custode di energia e simbolo del femminile. L’installazione, sebbene non lo richiami nelle forme, è un omaggio all’albero della vita: un dialogo simbolico tra uomo, mondo terreno ed universo spirituale racchiuso negli anelli infiniti di filato.

Ci sono voluti dieci giorni all’artista kazaka per dare vita alla sua opera site-specific Memory of Hope per celebrare il secondo appuntamento del Progetto Speciale dell’Archivio Storico della Biennale «È il vento che fa il cielo. La Biennale di Venezia sulle orme di Marco Polo» (www.labiennale.com).

Come in ogni viaggio, la regola della strada prevede che ogni tappa sia temporanea. Anche l’opera, esposta fino al 10 febbraio, ha una data di scadenza. A mostra conclusa, le fibre rinunceranno alla forza elettrostatica che le tiene unite e si disperderanno senza possibilità di ritorno.

«L’installazione riflette un’identità mutevole che non cerca di definire categorie o confini, ma abbraccia la complessità dei riferimenti visivi in cui è cresciuta», spiega la curatrice Luigia Lonardelli, «l’artista recupera le tradizioni nomadiche e tessuti di largo consumo che sono entrati nel paese durante il periodo sovietico a cui accosta, con continui scarti laterali, pezzi di stoffa provenienti dalla produzione cinese. In questa totale lontananza di iconografie, colori e valori tattili, l’opera dà vita ad una serie di combinazioni materiche e cromatiche richiamando i grandi orizzonti delle steppe euroasiatiche».

Mukazhanova racconta Marco Polo attraverso l’eredità degli antenati. Niccolò e Matteo, padre e zio del viaggiatore, aprirono la via spingendosi per primi nelle distese desertiche del Kazakistan, un confine naturale fra l’area europea e quella asiatica. Allo stesso modo, l’artista recupera la tradizione tessile delle generazioni che l’hanno preceduta. «Solitamente lavoro con il feltro, ma questa volta ho scelto fibre naturali, utilizzate nei secoli dai miei antenati», spiega Mukazhanova, «ho voluto tracciare un collegamento ideale tra passato e presente, locale e globale, nel tentativo di proporre una riflessione sul valore del nostro tempo e il ruolo dell’essere umano in un mondo in continuo cambiamento».

Un’aspirazione che la Biennale cerca di trasmettere in ogni progetto. «Questa tessitura di segni, voci, suoni, colori, cammini», evidenzia il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco, «è simbolo del percorso che la Biennale ha intrapreso per restituire un’immagine delle contemporaneità e, ancora di più, di ciò che accadrà domani». Il viaggio artistico per celebrare i settecento anni dalla scomparsa di Marco Polo non si ferma qui. «Il progetto è iniziato a Hangzhou con la mostra “Il sentiero perfetto” dedicata sull’ultima generazione di artisti cinesi, inaugurata lo scorso 9 novembre al CAA Art Museum», racconta Debora Rossi, responsabile dell’Archivio Storico della Biennale, «dopo l’appuntamento veneziano, sarà il turno di Istanbul nell’autunno 2025».

Inseparabile compagno di viaggio è Amfibio, il palco in legno realizzato dell’artista turco Cevdet Erek. «Come una moderna carovana di passaggio nelle terre che attraversa», spiega la curatrice, «Amfibio è un luogo temporaneo di riposo, sosta e condivisione. Uno spazio modulare performativo, concepito per trasformarsi sia nella sua realizzazione sia nel suo sistema audio, in accordo con le tradizioni architettoniche e i ritmi dei luoghi che percorrerà».

Riproduzione riservata © il Nord Est